Omelia (20-01-2013) |
mons. Roberto Brunelli |
Una epifania 'fuori programma' Questa domenica cade nel bel mezzo dell'annuale Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani, che a sua volta si colloca nell'Anno della fede. Queste coincidenze conferiscono alla festa odierna una valenza particolare: invitano per esempio a riflettere sulla fede che insieme si professa nel corso della Messa, confrontata con quella dei "fratelli separati" (ortodossi, anglicani, valdesi, protestanti delle varie denominazioni). Per secoli si è battuto e ribattuto su quello che ci separa; da qualche tempo invece si preferisce mettere in evidenza quello che ci accomuna, scoprendo con gioia che è molto, molto di più. Siamo tutti cristiani, e lo siamo perché condividiamo non solo i capisaldi dottrinali del cristianesimo (Dio Uno e Trino; Gesù vero Dio e vero uomo, redentore di tutti; il battesimo; la vita eterna; la Bibbia quale Parola di Dio: eccetera) ma anche, nei suoi tratti basilari, lo stile di vita che ci dovrebbe caratterizzare, derivante dal precetto dell'amore per Dio e per il prossimo. Riconoscere reciprocamente quanto c'è di bello e di buono nel modo di vivere la fede promuove la piena unità e già ora rende gloria a Dio, perché lo riconosce Autore di ogni bene, come richiama la seconda lettura (1Corinzi 12,4-11): "Fratelli, vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti". Il vangelo odierno (Giovanni 2,1-11) torna, come già nelle due scorse domeniche, a celebrare l'Epifania, cioè il fatto che Gesù si manifesta per come è e non solo per come appare. Con una singolarità: questa Epifania è stata, per così dire, un "fuori programma". Si tratta del primo miracolo compiuto da Gesù nel corso del suo ministero pubblico: invitato con sua madre e alcuni discepoli a un matrimonio nel villaggio di Cana, egli non disdegna di mantenere viva la festa cambiando l'acqua nel vino venuto a mancare. Nell'episodio si distingue la figura di Maria: è lei ad accorgersi della difficoltà in cui stanno per incorrere gli sposi, e subito, prima che il problema si manifesti, se ne fa carico, segnalandolo a chi sa che lo può risolvere. "Non hanno più vino", dice al Figlio. Questi le risponde in modo a prima vista duro: "Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora". Quell'accenno alla sua "ora" sottintende che Gesù aveva un programma da seguire nella sua auto-rivelazione, un piano d'azione in cui un intervento a Cana non era compreso; tuttavia la sollecitazione della Madre basta a farglielo cambiare. Anche in base a questo episodio si è diffuso nei secoli il ricorso a Maria da parte dei cristiani, fiduciosi che ella possa continuare ad ottenere il benefico intervento del suo Figlio. Inoltre dovrebbe far riflettere quanti hanno del cristianesimo una cupa visione di penitenze e rinunce. Gesù compie un miracolo - e per di più il primo, che è in certo modo programmatico - per un motivo apparentemente futile: fornire altro vino a chi pure ne aveva già bevuto. Dovrebbe far riflettere: quel gesto la dice lunga su come Gesù intenda la vita degli uomini. Egli non li vuole certo tristi: guarisce i malati perché siano in buona salute; nei suoi insegnamenti indica come vivere in armonia; e non è affatto contrario alla festa di chi banchetta in compagnia. Una gioia perseguita senza malizia dà agli uomini la percezione di come sarà la vita eterna, la felicità piena e senza fine che Dio assicura agli eletti. Già Isaia (25,6) l'aveva annunciata con l'esempio di un banchetto: il Signore preparerà per tutti i popoli "un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati". E lo stesso Gesù ha ripreso il concetto, come si legge in Matteo 8,11: "Ora io vi dico che molti verranno dall'oriente e dall'occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli". |