Omelia (05-06-2005)
mons. Antonio Riboldi
Un invito difficile e meraviglioso

Giugno è il mese che la Chiesa ha dedicato ad una particolare e preziosa devozione, quella del S. Cuore di Gesù. C'era un tempo, e speriamo sia ancora oggi, che ogni casa portava al suo ingresso una icona, che era come una dedicazione: l'icona del Cuore di Gesù. E quella icona, bene in vista all'ingresso della casa, stava ad indicare una meravigliosa realtà: la famiglia tutta intera era consacrata al Cuore Sacratissimo di Gesù, ossia apparteneva a Lui era nel suo cuore. E quale posto più sicuro poteva trovare la famiglia? C'è ancora sulle nostre porte?
Forse no, mettendo in secondo piano quello che doveva essere come il capotavola della vita in famiglia: Gesù, il Suo Cuore. Non solo, ma c'era e forse in tanti c'è ancora, la pratica dei primi venerdì del mese, che erano l'educazione all'amore di Dio e a mettersi in intima unione con Lui. Quella pratica la si considerava la "porta sicura aperta alla salvezza in Cielo". Forse abbiamo dimenticato porta e serratura.
Quello che potrebbe essere peggio, ignoriamo il tesoro di quel Cuore che nella sua passione e morte ha voluto dirci quanto ci vuole bene. Incredibilmente.
Racconta l'apostolo Giovanni: "Era la vigilia della festa: le autorità ebraiche non volevano che i corpi rimanessero in croce durante il giorno festivo, perché la Pasqua era una festa grande, perciò chiesero a Pilato di fare spezzare le gambe ai condannati e fare togliere di lì i loro cadaveri. I soldati andarono a spezzare le gambe ai due che erano stati crocifissi con Gesù. Poi si avvicinarono a Gesù e videro che era già morto. Allora non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati gli trafisse il fianco con la lancia. Subito ne uscì sangue e acqua" (Gv.19, 31-35).
Ma può mai Dio proclamare il suo amore per ciascuno di noi più di così?
E' incredibile, ma meraviglioso, sapere di essere amati tanto. Lo sappiamo almeno? Torni il Cuore di Gesù a essere il nostro tesoro cui affidarci! E il Vangelo di oggi mostra come Gesù, subito, all'inizio della sua missione tra noi uomini, per la nostra salvezza, cerca e chiama. La sua chiamata non ha i nostri criteri che alle volte subiscono esami di capacità o altro. Lui sceglie "a suo modo". Sceglie e chiama quelli che forse noi, che amiamo gente "dotata", "capace", o altro, non avremmo neppure degnato di uno sguardo.
Sceglie e chiama deboli, poveri, peccatori, come Matteo, ossia quelli che sapevano di valere nulla presso la gente ed avevano come ricchezza la loro debolezza e povertà. Ma erano proprio queste le grandi doti su cui Lui poteva, domani, compiere la sua opera di salvezza. Dio non ha bisogno di superbi ma di umili, di "servi inutili". Sarà lo Spirito ad operare. Quelli che Lui chiama, li trasformerà, come amava chiamarsi Madre Teresa di Calcutta, in "matite nella mano di Dio", con cui scrivere Lui e solo Lui, la salvezza.
Ecco il racconto della chiamata di Matteo: "Gesù, passando, vide un uomo seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo e gli disse: "Seguimi". Ed egli si alzò e Lo seguì. Mentre Gesù sedeva a mensa, in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli. Vedendo ciò i farisei dicevano ai suoi discepoli: "Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e peccatori?" Gesù li udì e disse: "Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori" (Mt. 9,9-13).
E Matteo, era noto, essendo esattore di imposte, era considerato grande peccatore, non solo per l'amore al danaro, ma per gli imbrogli e furti che sapeva compiere con il suo mestiere. Davvero è difficile anche solo pensare cosa sia avvenuto nel cuore di Matteo, quando Gesù gli disse "Seguimi". Si sa che lasciò alle sue spalle tutto, ma proprio tutto, ed accolse l'invito di chi gli offriva "altro", che nulla aveva a che fare con i tesori, che ingannano, della terra.
Quanta fiducia aveva Gesù in Matteo, nonostante ciò che era! Quanta fiducia a volte ha Gesù in noi, nonostante ciò che crediamo di essere. E di "Matteo", che si lasciano attrarre dal "Seguimi", ce ne sono tanti, anche oggi, nonostante il loro benessere o altro. Davvero l'amore è più di tutto, quando il cuore si apre per essere amato.
Ha fatto tanta impressione un brano del discorso che il Santo Padre fece all'inizio del suo pontificato: "La santa inquietudine di Gesù deve animare il pastore: per lui non è indifferente che tante persone vivano nel deserto. E vi sono tante forme di deserto. Vi è il deserto della povertà, il deserto della fame e della sete, vi è il deserto dell'abbandono, della solitudine, dell'amore distrutto. Vi è il deserto della oscurità di Dio, dello svuotamento delle anime senza più coscienza della dignità e del cammino dell'uomo. I deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi. Perciò i tesori della terra non sono più al servizio della edificazione del giardino di Dio, nel quale tutti possono vivere, ma sono asserviti alle potenze dello sfruttamento e della distruzione. La Chiesa nel suo insieme, ed i Pastori in essa, come Cristo devono mettersi in cammino, per condurre gli uomini fuori dal deserto, verso i luoghi della vita, verso l'amicizia con il Figlio di Dio, verso Colui che dà l vita, la vita in pienezza...Solo quando incontriamo il Cristo, il Dio vivente, noi conosciamo cosa è la vita. Non siamo il prodotto casuale e senza senso dell'evoluzione. Ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di Dio. Ciascuno di noi è voluto, ciascuno è amato, ciascuno è necessario.
Non vi è niente di più bello di essere raggiunti, sorpresi dal Vangelo, da Cristo. Non vi è niente di più bello che conoscere Lui e comunicare agli altri l'amicizia con Lui" (dal discorso dell'inizio del pontificato di Benedetto XVI).
Comprendiamo allora la chiamata di Matteo, la sua gioia, frutto di una grazia che sconvolge totalmente una vita, impostata su valori che non contengono Cristo e l'amicizia.
Dio, il Padre, non può essere indifferente alla nostra sorte. Sarebbe inconcepibile, direi contro la stessa natura, che ad un padre nulla interessasse la sorte del figlio. Direi, anzi, che un vero papà, una vera mamma, quando il figlio si perde "nel deserto", lascia tutto e fa come il buon pastore: lo cerca e non si dà pace fino a che lo trova. Perché un figlio...è un "pezz'e core", affermano i napoletani. E' un amore quello di papà e mamma che sembra un raggio di quello grande del Padre verso di noi. E tutti noi, che siamo figli dello stesso Padre, dovremmo sentire questa passione verso chi si è perduto e darci da fare, "andare" con Gesù, come Matteo, a riportare alla gioia dell'amore gli smarriti.
Un cristiano deve sentirla questa passione, a cominciare dalla propria famiglia. I "figli" o "i fratelli" non dobbiamo aspettare a piangerli da morti, Quando non c'è più niente da fare, se non piangere. Dobbiamo ritrovarli da vivi. Ascoltiamo la voce del profeta Osèa: "Affrettiamoci a conoscere il Signore, la sua venuta è sicura come l'aurora. Verrà a noi come la pioggia di autunno, come la pioggia di primavera che feconda la terra. Che dovrò fare per te, Efraim, che dovrò fare per te Giuda? Il vostro amore è come un nube del mattino, come la rugiada che all'alba svanisce. Per questo li ho colpiti per mezzo dei profeti, li ho uccisi con le parole della mia bocca; il mio giudizio sorge come la luce, poiché voglio l'amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti". C'è davvero tutta la passione che Dio ha per noi, e noi ignoriamo, affidandoci così alla infelicità di chi non è amato.
Chissà quante volte Gesù è passato vicino a noi, come fece con Matteo. Sono quei momenti di inquietudine interiore, di richiamo dall'alto che ci hanno lasciati come perplessi. Era Gesù che passava vicino e diceva: "Seguimi".
Ce lo ha detto con quel suo sguardo che quando si ferma su di noi e ci fissa, penetrando fin dentro le midolla, assomiglia un invito dall'Alto. Qualcuno si accorge di questo sguardo e ascolta. Sono tanti gli esempi e le testimonianze anche oggi. E' possibile che non si sia fermato anche per noi? Non credo.
Forse pensiamo che siamo troppo peccatori, ossia fuori del giro dell'amore del Padre. Ed invece è proprio di noi che si interessa "Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori...Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati". E potremmo essere noi.
E allora con San Bernardo, profondo conoscitore di Dio, prego: "Sei tu, Signore, la mia speranza". Qualunque cosa debba fare o tralasciare, sopportare o desiderare, tu, o Dio, sei la mia speranza. Sperino pure altri in altre cose, confidando chi nella scienza o nella astuzia del mondo, chi nella nobiltà, nella dignità o in qualunque altra vanità: Io per amore tuo, considero tutte queste cose come perdita e le stimo come spazzatura. Speri chi vuole nelle ricchezze, io invece mi fido delle tue Parole" (S. Bernardo).