Omelia (13-05-2007) |
don Marco Pratesi |
Nessun altro peso La prima lettura ci presenta un momento cruciale nella vita della Chiesa primitiva. La primissima comunità era interamente formata da ebrei. Man mano che la sua forza di irradiazione si era estesa, vi avevano fatto ingresso anche dei pagani. Per un po' i due gruppi avevano convissuto senza questioni, ma ad un certo punto era nato un problema. Alcuni cristiani provenienti dal gruppo dei farisei (cf. At 15,5) ritenevano necessaria per la salvezza l'assunzione di un doppio giogo, quello di Cristo e quello della Torah (At 15,10): "se non vi fate circoncidere non potete esser salvi". Il problema era di non poco conto, sia dal punto di vista teorico che pratico. Per salvare, Cristo ha bisogno di qualcos'altro? Da solo è insufficiente, bisognoso del complemento della Torah? Il Risorto può essere sacramento universale di salvezza soltanto attraverso Mosè? Dal punto di vista pratico, l'imposizione a tutti della legge ebraica avrebbe comportato un drastico ridimensionamento della forza di attrazione del cristianesimo: per arrivare a Cristo qualsiasi pagano avrebbe dovuto superare una non piccola difficoltà culturale. Fu necessaria capacità di discernimento, libertà interiore e ampiezza di prospettive per trovare la strada. Questi nostri padri, tutti ebrei, giustamente attaccati alla loro tradizione (anche Paolo), seppero vedere con lucidità - era lo Spirito Santo ad illuminarli - che cosa era veramente indispensabile per "essere di Cristo" (cf. 1Cor 1,12). Abituati alle loro categorie ebraiche, che nessuno di essi ripudiò, seppero tuttavia non lasciarsi rinchiudere in esse. Notiamo che la spinta all'apertura venne dalla prassi, dalle situazioni. Già Pietro aveva dovuto costatare, come ricorda egli stesso nell'assemblea (15,7-9, non letto) che nei fatti Dio aveva dato lo Spirito ai pagani. Poi Barnaba e Paolo avevano fatto la stessa esperienza in modo ancora più vasto (At 15,4.12). Non c'è qui un procedimento deduttivo, quanto piuttosto un lasciarsi interrogare, e quasi condurre per mano, dall'azione di Dio nella storia. Certo, non senza aver operato un discernimento. Il risultato dell'assemblea di Gerusalemme fu chiaro: a chi vuole entrare nella Chiesa non si deve imporre alcun peso che non sia strettamente necessario. Le osservanze che gli Apostoli imposero ai pagani convertiti, quale che sia la loro precisa interpretazione, avevano poi la funzione di consentire relazioni fraterne tra cristiani delle due provenienze. Al di là del rapporto tra Legge di Mosé e Vangelo, problema che sarà al cuore della riflessione paolina, è importante oggi tenere presente questo esempio. In un'epoca disorientata e senza tradizioni, non dobbiamo chiedere a chi si accosta alla fede niente che non sia ad essa strettamente essenziale e necessario, per non chiudere quelle porte che Dio apre. Non dobbiamo lasciarci imprigionare nei nostri schemi e abitudini, come se quello che per noi è stato mezzo di salvezza dovesse esserlo per tutti. Qui si richiede capacità di discernimento: discernere la fede dalle sue forme, il Vangelo dai modi nei quali esso può essere tradotto. Attenzione, si naviga tra Scilla e Cariddi: da un lato, ritenere irrinunciabili alcune modalità pone indebiti ostacoli sulla via della salvezza; dall'altro, non richiedere quello che è essenziale, rinunziarvi per "attirare", come si dice, più persone, significa dissolvere la proposta cristiana. Da un certo punto di vista si deve richiedere il minimo. Da un altro il massimo. Lo Spirito Santo guida la Chiesa: ci conceda di mostrarci all'altezza dei nostri padri nella fede per essere anche oggi luce dei popoli. |