Omelia (16-07-2007) |
mons. Vincenzo Paglia |
Gesù chiede ai discepoli un amore così radicale da superare anche quello per i familiari. Solo chi ha questo amore è "degno" del Signore. Per tre volte in poche righe si ripete: "essere degni di me"; un'insistenza che contrasta con le parole del centurione che ripetiamo in ogni celebrazione eucaristica: "O Signore, non sono degno che tu entri sotto il mio tetto". In effetti, chi può dirsi degno di accogliere il Signore? Basta uno sguardo realistico alla vita di ciascuno di noi per renderci conto della nostra pochezza e del nostro peccato. Essere discepoli di Gesù non è né facile, né scontato, e non è frutto di nascita o di tradizione. Si è cristiani solo per scelta, non per nascita. E il Vangelo ci dice di quale altezza è tale scelta. I discepoli di Gesù sono coloro che condividono senza riserve la sua persona e il suo destino, sino ad identificarsi con lui. In tal senso il discepolo trova se stesso trovando Gesù. E' questo il senso delle parole che seguono: "Chi avrà trovato la sua vita la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia la troverà". E' una delle frasi di Gesù più tramandate (ben sei volte è presente nei Vangeli). Ovviamente la prima comunità cristiana ne aveva compreso l'importanza e la vedeva realizzata anzitutto in Gesù stesso. Egli ha "ritrovato" la sua vita (nella resurrezione) "perdendola" (ossia, spendendola sino alla morte) per l'annuncio del Vangelo. E' esattamente l'opposto della concezione normale della gente che crede di essere felice quando trattiene per sé la propria vita, il proprio tempo, le proprie ricchezze, i propri interessi; ma sappiamo i guasti che produce il sentimento di conservazione di se stessi e dei propri interessi a qualsiasi costo. Il discepolo, al contrario, trova la sua felicità nello spendere la propria vita per il Signore e per i poveri, nella rinuncia a conservare se stesso per darsi tutto al Signore. Il "manuale" dei discepoli in missione - così possiamo definire il capitolo decimo di Matteo - viene chiuso dall'evangelista con alcune note sull'accoglienza loro riservata. E' naturale che l'inviato si aspetti di essere accolto da coloro ai quali è mandato. Gesù stesso se lo augura e ne sottolinea la ragione di fondo: "Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato". In questo versetto si condensa il perché della dignità del discepolo: la totale dipendenza dal Signore, al punto che la loro presenza significa quella di Gesù stesso. E' ovvio che si tratta di accogliere il discepolo come "profeta", ossia come colui che porta il Vangelo, che non annuncia la propria parola ma la Parola di Dio. E la ricezione della Parola è la ricompensa che il Signore promette a coloro che accolgono i suoi discepoli. Gesù li chiama anche "piccoli": il discepolo, infatti, non possiede né oro né argento, non ha bisaccia e neppure due tuniche, e deve camminare senza portarsi né sandali né bastone (Mt 10,9-10). L'unica sua ricchezza è il Vangelo, di fronte al quale anche lui è piccolo e totalmente dipendente. Questa ricchezza dobbiamo accogliere; questa ricchezza dobbiamo trasmettere. |