Omelia (16-02-2003) |
mons. Antonio Riboldi |
La difficile prova dell'amore Mentre sto scrivendo questa riflessione, cerco una risposta al momento difficile che stiamo attraversando. Mai come in questi tempi si è visto l'uomo della strada, noi, che troppo spesso veniamo considerati un numero che fa popolo, e non una persona, che fa famiglia, manifestare la sua natura vera, quella donataci da Dio, chiedendo a gran voce il bene della pace. Credo sia la prima volta nella storia dell'uomo, che le case, le Chiese, i luoghi pubblici, almeno in Occidente, e speriamo lo sia dappertutto, fanno spazio ad un drappo color arcobaleno con scritto: PACE! E' come un immenso arcobaleno che si stende sulla terra e Dio voglia abbia la sua origine dal Cuore di Dio, che ci ha creati per la pace e da Cui proviene il dono della pace vera. La pace non è solo un bene per tutti, ma è un diritto di tutti. Deve essere chiaro, a tutti, che la violenza non fa parte della natura dell'uomo, uscito dalle buone mani di Dio, ma è solo una manifestazione del cuore di satana, che conosce solo divisione, odio, terrorismo, insomma vuole l'inferno per l'uomo. E' stato così dall'inizio, con Caino e Abele. E pare proprio che anche oggi il confronto sia tra la bontà di Abele e la crudeltà di Caino. Sta davanti a noi il libro della storia, fino alla recente memoria dello sterminio degli Ebrei, i campi di concentramento, le distruzioni di città, le emigrazioni in cerca di sopravvivenza e asilo, l'oceano di dolore che ogni atto di guerra comporta. Dovrebbe pure insegnare a tutti questa lezione della storia. Non c'è guerra giusta o ingiusta. La guerra, dice il S. Padre: "E' una sconfitta della umanità". Non lo ha capito il terrorismo, che non è certamente la via di una giustizia, quella di creare paura e ecatombe come nelle due torri di NewYork. Non lo capiscono i capi di stato, che le ricchezze servono a fare stare bene i popoli e non ad ammassare armi distruttive: questa è pura follia. Pare non faccia più parte della coscienza del "potere", che esso stesso non può essere "contro" la volontà dei cittadini, che sono i soli poi a pagare gli errori, ma il suo dovere è quello di ascoltare l'immenso coro dell'arcobaleno che vorremmo circondasse tutta la terra, toccando ogni nazione, con la sua origine proprio dal cuore di Dio, da cui parte amore e pace che vorrebbero dimorare nel cuore degli uomini. Non si può fare a meno che seguire le orme e la voce del S. Padre, vero Mosè dei nostri giorni, tanto simile a Mosè sul monte con le braccia alzate al cielo, in continua preghiera per il suo popolo. "Il volto di Cristo - disse ai componenti la Curia romana a Natale - continua ad avere un tratto dolente, di vera passione per i conflitti che insanguinano tutte le regioni del mondo e per quelli che minacciano di esplodere con rinnovata violenza il terrorismo poi continua a mietere vittime e scavare ulteriori fossati". Ed aggiungeva, poco tempo dopo, parlando al Corpo Diplomatico tre "sì" e tre "no", che devono essere il senso della nostra preghiera e la via su cui costruire una vera pace. "Sì" alla vita e alle vite, poiché aborto, eutanasia e clonazione rischiano di ridurre la persona umana a semplice oggetto: in poche parole, la vita e la morte a comando d'uomo. "Sì" al rispetto del diritto sul piano personale e internazionale. "Sì" al dovere della solidarietà, di fronte a condizioni di esistenza scandalosamente inadeguate. "No" alla morte, intesa come tutto ciò che attenta alla dignità dell'uomo. "No" all'egoismo di chi vive nel benessere, ignorando che altrove non esistono medicine e spesso neppure l'acqua. "No" alla guerra che non è una fatalità: è solo una sconfitta dell'uomo e non risolve i problemi. Ora, che sembra si ripeta il titolo del romanzo di Hemingwai: "Per chi suona la campana", davanti ad un pericolo che sembra oramai fuori la porta di casa, l'arcobaleno cerca di premere sul cuore di Dio, con la preghiera...sempre che la superbia umana sappia piegarsi alla pietà e sappia a cosa porta la follia della guerra. Oggi il Vangelo sembra portarci per mano sul tema della sofferenza. Gesù, sulla sua strada incontra un lebbroso, e ne incontrerà tanti. La lebbra era ed è considerata una di quelle malattie che possono facilmente essere trasmesse e quindi si imponeva e si impone a questi di "uscire dalla città", ossia di uscire dalla cura ed attenzione dei fratelli. Una condanna alla emarginazione, a cui era proibita ogni forma di pietà. Condannati a morire, quindi, più che per la malattia, per la solitudine. E oggi ce ne sono tanti. Io che dirigo una modesta rivista, che si occupa di loro, intitolata "Amici dei lebbrosi", posso testimoniare come la maggiore sofferenza dei lebbrosi è non avere chi li ama. Non dimenticherò mai la lettera di uno di loro che, scrivendomi esprimeva la sua gioia di avere trovato negli "amici", quella solidarietà che era la medicina che cercava. "Non mi importa essere un lebbroso: ora che so di avere amici, non mi importa più la lebbra. La vera lebbra, diceva non è la malattia guaribile ma la solitudine". E lo stesso concetto me lo affermò il mio amico malato di AIDS. "Avevo tanti amici prima. Forse per loro ero solo un numero che faceva gruppo e creava allegria. Non ero uomo tantomeno amico. Quando seppero della mia malattia, che non è affatto contagiosa, fui lasciato letteralmente solo a contare i giorni della mia esistenza. La solitudine è la peggiore malattia, più dell'AIDS. Presto morirò e morirò due volte: la prima per morte naturale ed è la meno dolorosa, anzi l'attendo. La seconda, dolorosissima, è di morire solo come non esistessi. Ti prego, mi disse: "Quando morirò non portare la mia salma in Chiesa per non vedere attorno alla mia bara amici che ti sono vicini da morto e non da vivo. Una vera beffa' che non sopporto". E fu così. Gesù non ha paura di accostarsi al lebbroso, che gli si fa vicino violando le regole che proibivano questo. Non ha paura di ammalarsi con lui. Ascolta l'umile preghiera: "Signore, se tu vuoi puoi salvarmi!" E' toccante questa fede senza limite. Commuove il cuore di Gesù che subito risponde: "Lo voglio, guarisci!" E subito la lebbra scomparve. (Mc.1,40-45). E' impressionante entrare in un ospedale, ovunque: una vera folla di pazienti, tutti in attesa di guarigione: ed una folla di familiari doloranti. A volte, pensando al grande numero degli ospedali, che sono tra di noi, ai tanti malati che sono nelle nostre case, mi viene da chiedere se la vera città è quella che soffre, o quella che cammina. Ho provato anch'io ad essere ricoverato, per poco tempo in ospedale e per poca cosa. Ma anche così senti il forte desiderio della vita, provi la durezza della sofferenza che a volte, somiglia a quella di Gesù in Croce. Cerchi disperatamente negli occhi di chi ti cura una speranza. E soprattutto vorresti avere sempre vicino chi ti ama, ti ridoni fiducia, come a colmare quella mancanza di vita, che viene meno nella malattia. Ma alle volte i nostri malati assomigliano tanto ai "lebbrosi", per la solitudine che sono condannati a soffrire. Non c'è chi li ami. E non capisci se la vera "lebbra" è la loro malattia o è l'egoismo dei sani, che non sanno condividere la sofferenza. I nostri malati sono i nostri poveri, che dobbiamo colmare di attenzione. So che tanti malati leggano queste mie riflessioni, non solo, ma le aspettano, sapendo che porto vicino a loro l'Amico Gesù. E voglio dire loro, qualunque sia la "lebbra che hanno" e tante volte è una "lebbra" ancora più dolorosa, quella del cuore, che non si vede, ma chiede più amore, che davvero sono vicino a loro con tutto il cuore: li penso sempre: prego. Vorrei avere il Cuore di Maria, la mamma di Gesù, che seppe stare vicino a Suo Figlio fin sotto la croce. E sotto la croce donava amore al Figlio, condividendo, senza parole il dolore, tanto era l'amore. Il Vangelo usa un verbo "Stava". Dovrebbe essere il modo di "essere" vicino ai malati, per chi li visita. |