Omelia (14-09-2007)
don Marco Pratesi
Due alberi, due serpenti

Se accogliamo la suggestione che ci proviene dal brano evangelico, celebrare l'esaltazione della croce è celebrare l'innalzamento del Figlio di Dio su ogni possibile cammino umano, come zampillo di salvezza e manifestazione della gloria sovrastante dell'amore di Dio.
Nell'episodio narrato nella prima lettura, la morte viene dai serpenti che mordono, e la salvezza dal serpente di bronzo innalzato nell'accampamento d'Israele. È qui già adombrata nel simbolo del serpente una misteriosa corrispondenza tra luogo della morte e luogo della vita. Corrispondenza che troviamo adempiuta nel mistero della croce, ben espressa dal prefazio odierno: "Nell'albero della croce tu hai stabilito la salvezza dell'uomo, perché donde sorgeva la morte di là risorgesse la vita, e chi dall'albero traeva vittoria, dall'albero venisse sconfitto". L'albero della trasgressione (cf. Gen 3,6) era stato il luogo della morte, l'albero dell'obbedienza è il luogo della vita. Nel suo mistero sapiente Dio ha voluto che la vita sconfiggesse la morte sul suo proprio terreno, non altrove. In effetti è proprio lì, nella sua morte, che l'uomo aveva e ha bisogno di incontrare un salvatore, non altrove. Se tutta la vita dell'uomo doveva essere salvata, colui che è disceso dal cielo non poteva che assumere l'uomo fin nella sua lontananza più estrema, nella sua morte maledetta: "maledetto chi pende dal legno", ricorderà san Paolo (Gal 3,13). Da allora la morte è per così dire stanata e sconfitta su qualsiasi terreno essa voglia aggredire l'uomo, perché la croce ha fatto di ogni luogo di morte un luogo di vita.
Il Figlio unigenito ci è stato donato dall'amore del Padre perché, lasciandosi avvelenare dal veleno della morte e neutralizzandolo nella sua carne, divenisse antidoto alla morte per chi alza lo sguardo a lui nella fiducia. Il simbolismo dell'albero è eloquente: laddove l'uomo aveva raccolto un frutto di morte ed era stato maledetto, raccoglie adesso frutti di vita, se si affida al maledetto che dal legno pende. La croce è morte della morte, morso per la morte, secondo la fortissima espressione di Osea 13,14 nella traduzione della Vulgata, echeggiata nell'ufficio del sabato santo (vespri, prima antifona): Ero mors tua, o mors; morsus ero tuus, Inferne (o morte, sarò la tua morte; inferno, sarò il tuo morso, la tua rovina; con efficacissimo accostamento tra mors e morsus). Nella croce innalzata, e nella sua attualizzazione sacramentale che è l'eucaristia, il fedele contempla e abbraccia la forma dell'esistenza redenta, oramai svuotata da ogni veleno e aperta al dono della vita nuova.
Signore, guardo con fiducia a te crocifisso, e ti affido qualunque veleno ci sia in me, per essere protetto dallo sterminio (cf. Es 12,12-13) e godere della tua vita infinita.

I commenti di don Marco sono pubblicati dal Centro Editoriale Dehoniano - EDB nel libro Stabile come il cielo.