Omelia (01-11-2007)
don Marco Pratesi
La buona battaglia

La Parola della festa odierna attira la nostra attenzione, tra le altre cose, su un fatto in qualche modo sconcertante: il cristiano, il santo, è un martire.
Il capitolo 7 dell'Apocalisse con le sue due visioni (prima lettura), va letto in relazione al quinto sigillo (6,9-11), dove il veggente contempla "le anime degli uccisi per la Parola" (v. 9), dei martiri. Se è vero che nei due gruppi - i centoquarantaquattromila e la moltitudine immensa - si possono ravvisare tutti i salvati, è altrettanto vero che Giovanni sottolinea in modo particolare, data anche la specifica situazione nella quale scrive, il ruolo dei martiri. C'è nell'Apocalisse una oscillazione tra il cristiano e il martire, in virtù della quale le due cose sembrano in qualche misura identificarsi: ognuno dei vittoriosi biancovestiti ha dovuto sperimentare la grande tribolazione (v. 14), combattere una lotta per la quale ha riportato quella vittoria della quale è segno il colore bianco e la palma che reca nelle mani (v. 9). Le sette lettere (cc. 2-3) esortano continuamente alla fortezza nella lotta, e tutte si concludono con una promessa al vincitore: per Giovanni ogni cristiano deve avere il coraggio e la forza del martire.
La pagina evangelica si chiude con la beatitudine dei perseguitati: beato chi viene preso di mira, offeso e calunniato per la giustizia; non per un qualsivoglia motivo, ma per la propria fedeltà a Dio.
Quale modello di cristiano, quale immagine di santità emerge dunque da queste pagine? Buon discepolo è colui che rimane fedele al proprio Signore anche quando ciò significhi accettare sofferenze, e persino rinunziare alla propria vita. Perché questa è la perfezione dell'amore: "nessuno ha amore più grande che questo: dare la sua vita per i suoi amici" (Gv 15,13). "Adesso comincio ad essere discepolo" scriveva Ignazio d'Antiochia, riferendosi al suo imminente martirio (Ai Romani V,3; cf. IV,2). Realizza la vocazione battesimale chi fa come il Signore, diventando così suo intimo amico: "siete miei amici, se fate le cose che vi comando" (Gv 15,14). Nel far questo, il discepolo non può aspettarsi di essere compreso dal mondo: "Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui" (1Gv 3,1, seconda lettura). Se tale "non conoscere" si traduca o meno nel martirio propriamente detto, dipende non dal discepolo ma dalle circostanze. Immutata però è la sua decisione di non lasciarsi dominare dalla paura della morte e dall'ansia per la propria vita, per affidarsi a Dio e aderire pienamente alla sua verità. Disposizione che è l'essenza della santità, e che possiamo e dobbiamo vivere in ogni situazione, ordinaria o straordinaria, circondati dall'avversione o dall'indifferenza, dall'irrisione o dall'applauso. La moltitudine festosa che oggi contempliamo con gioia è fatta da coloro che questa battaglia hanno combattuto e, nel sangue dell'Agnello, vinto.