Omelia (16-03-2003) |
Paolo Curtaz |
Al Tabor La domanda è piccante: è possibile parlare di amore senza essersi mai innamorati? Credo ci siano due modi per affrontare, ad esempio, un tema di questo genere: uno che direi "accademico", che analizza i sentimenti, li scruta, li vaglia, li cita. L'altro, tout-court, di chi ne ha fatto l'esperienza. E' difficile, nell'ambito del profondo e dell'autentico, sbilanciarsi senza prima avere sperimentato, parlare senza prima avere vissuto sulla propria pelle quelle condizioni, quelle situazioni. Così la fede: senza Tabor è un'altra cosa. L'idea della Quaresima, della desertificazione, del fare spazio, del ricominciare da Dio, non ha senso se non termina davanti al volto del Cristo risorto. Ne ho fatto un chiodo fisso, di quest'idea. Il dire che la fede tende all'incontro, si nutre di attesa, si proietta, assetata, verso questo obiettivo. Altrimenti, sarò schietto, il grosso rischio è quello di concepire la fede come un'esigenza morale, un tendere a un bene morale che non ha radici nell'esperienza. Perché cavolo dovrei rinunciare a parcheggiarmi davanti al televisore? Perché dedicare tempo alla preghiera? Perché rinunciare a qualcosa per venire incontro al fratello povero? Perché? L'unica risposta è: per salire al Tabor. Non si raggiungono le vette se nello zaino siamo pieni di pesanti fardelli. Non troviamo la luce se prima non apriamo gli occhi sulle nostre tenebre. Seguire il Maestro è anzitutto esperienza della sua luce, della sua gloria, della sua bellezza. E' bello, allora, che tutti gli anni, durante la seconda domenica del nostro itinerario, ci troviamo di fronte a questo Cristo che si manifesta per ciò che è. Questo è il premio, il risultato, il dono che acquistiamo alla fin del nostro percorso. Semplicemente. Altro è alzarsi al mattino per iniziare una settimana di scuola o di ufficio. Altro alzarsi per passare una giornata tra le montagne. Lo sforzo che ci viene chiesto, di autenticità, è tutto mirato alla pienezza, né più, né meno. Ricordato l'obiettivo, ci viene più spontaneo l'affrontare il percorso, accettare la proposta. Un'ulteriore riflessione mi viene da questa innocente e strepitosa affermazione di Pietro: "Maestro è bello per noi essere qui". Abbiamo urgente, assoluto bisogno di recuperare il senso del bello nella nostra vita. La bellezza risulta essere una straordinaria forza che ci attira verso Dio, che in sé è armonia, pienezza, verità. Quante volte mi viene da dire, a chi mi chiede della fede: è bello credere. E' bello e svela in me e negli altri l'intima e nascosta bellezza che lega le persone, gli avvenimenti, le emozioni. Quanti uomini e donne, nella storia, si sono avvicinati alla fede perché attratti dalla bellezza del Cristo, dalla sua ineguale umanità, dalla sua profonda tenerezza, dalla sua stupefacente maturità. Sì: è bello essere qui, Signore. E' così problematico dirlo? E' così difficile rispondere al collega d'ufficio un po' sospetto per il mio improvviso fervore mistico? "Perché vai a Messa ad ascoltare le storie dei preti?" "Perché è bello, perché ho la percezione della felicità pura" Non avete mai sentito la Parola buttarvi per aria? Non avete mai avuto il fiato mozzato dalla percezione di una diga che, dentro il vostro cuore, stava allagando la vostra vita? Certo: il rischio è quello di restare chiusi nell'emozione, di legarsi troppo alla percezione senza aprirsi alle conseguenze di vita di questo incontro. Così gli apostoli, scesi dal Tabor, dovranno salire su un altro monte: il Golgota. Lì la loro fede sarà macinata, seminata, resa pura. Ma, attenti bene, senza coinvolgimento emotivo, senza reale bellezza, senza entusiasmo, è difficile essere credenti, difficile restare cristiani. Il nostro mondo ha bisogno di bellezza, di armonia. Nel caos dell'eccesso (che di bello ha l'apparenza, ma che spesso nasconde il nulla) il nostro mondo può imparare dal cristianesimo la bellezza della fede, della preghiera, del silenzio, del gesto d'amore verso il fratello. Animo, dunque, il Tabor ci aspetta! |