Omelia (02-11-2007) |
padre Raniero Cantalamessa |
Il rifiuto della morte è la prova che non siamo fatti per essa La commemorazione dei fedeli defunti è l'occasione per una riflessione esistenziale sulla morte. Nella Scrittura leggiamo questa solenne dichiarazione: "Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi... Dio ha creato l'uomo per l'immortalità; lo fece a immagine della propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo" (Sap 1, 13-15. 24). Comprendiamo da ciò perché la morte suscita in noi tanta repulsione. Il motivo è che essa non ci è "naturale"; così come la sperimentiamo nel presente ordine delle cose, è qualcosa di estraneo alla nostra natura, frutto della "invidia del diavolo". Per questo lottiamo contro di essa con tutte le forze. Questo nostro insopprimibile rifiuto della morte è la prova migliore che noi non siamo fatti per essa e che non può essere essa ad avere l'ultima parola. Proprio di questo ci assicurano le parole della prima lettura della Messa: "Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà..." . Il timore della morte è confitto nel più profondo di ogni essere umano. C'è stato chi ha voluto ricondurre ogni attività umana all'istinto sessuale e spiegare tutto con esso, anche l'arte e la religione. Ma più potente dell'istinto sessuale è quello del rifiuto della morte, di cui la stessa sessualità non è che una manifestazione. Se si potesse udire il grido silenzioso che sale dall'umanità intera, si ascolterebbe l'urlo tremendo: "Non voglio morire!" Perché, dunque, invitare gli uomini a pensare alla morte, se essa ci è già tanto presente? E' semplice. Perché noi uomini abbiamo scelto di rimuovere il pensiero della morte. Di far finta che non esista, o che esista solo per gli altri, non per noi. Progettiamo, corriamo, ci esasperiamo per cose da nulla, proprio come se a un certo punto non dovessimo lasciare tutto e partire. Ma il pensiero della morte non si lascia accantonare o rimuovere con questi piccoli accorgimenti. Allora non resta che reprimerlo o sfuggire alla sua serietà con dei palliativi. Gli uomini non hanno mai cessato di cercare rimedi contro la morte. Uno di questi si chiama la prole: sopravvivere nei figli. Un altro è la fama. Ai nostri giorni si va diffondendo un nuovo pseudo-rimedio: la dottrina della reincarnazione. La dottrina della reincarnazione è incompatibile con la fede cristiana, che al suo posto professa la risurrezione da morte. "È stabilito che gli uomini muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio" (Eb 9,27). Come viene proposta tra noi in occidente la reincarnazione è frutto, tra l'altro, di un madornale equivoco. All'origine la reincarnazione non significa un supplemento di vita, ma di sofferenza; non è motivo di consolazione, ma di spavento. Con essa si viene a dire all'uomo: "Bada, che sei fai il male, dovrai rinascere per espiarlo!". E' come dire a un carcerato, alla fine della sua detenzione, che la sua pena è stata prolungata e tutto deve ricominciare da capo. Il cristianesimo ha ben altro da offrire sul problema della morte. Annuncia che "uno è morto per tutti", che la morte è stata vinta; non è più un baratro che tutto inghiotte, ma un ponte che porta all'altra riva, quella dell'eternità. E tuttavia riflettere sulla morte fa bene anche ai credenti. Aiuta soprattutto a vivere meglio. Sei angustiato da problemi, difficoltà, contrasti? Portati avanti, guarda queste cose come ti appariranno al momento della morte e vedrai come le cose si ridimensionano. Non si cade nella rassegnazione e nell'inattività; al contrario, si fanno più cose e si fanno meglio, perché si è più calmi e più distaccati. Contando i nostri giorni, dice un salmo, si giunge "alla sapienza del cuore" (Sal 89, 12). |