Omelia (16-03-2003) |
don Elio Dotto |
La gioia e lo spavento E' sempre affascinante la storia di Abramo, questo nomade coraggioso che più di quattromila anni fa prese dimora in quelle terre che oggi chiamiamo Palestina. Abramo soffrì molto nella sua vita: ma ebbe anche molte gioie; soprattutto ebbe la gioia di diventare padre a cento anni, quando ormai stava per smarrire ogni speranza. Tuttavia quella non fu una gioia facile: perché quel figlio tanto atteso e cercato rimaneva pur sempre un figlio precario, un figlio che si era ricevuto ma che si poteva anche perdere. E dunque la gioia di Abramo rimaneva inesorabilmente legata allo spavento: appunto quello spavento che prende Abramo nel racconto della prima lettura di domenica (Gn 22,1-2.9.10-13.15-18), quando capisce che deve in qualche modo offrire il suo unico figlio al Signore. Gioia e spavento stanno quindi insieme nella storia di Abramo. Ma - se ci pensiamo bene - anche nella nostra vita succede sempre che la gioia sia accompagnata dallo spavento. Infatti noi vediamo subito la fragilità delle nostre gioie: perché sappiamo di non poterle trattenere a lungo; e di conseguenza ci spaventiamo, spinti dal desiderio impossibile di fermare quell'attimo, di trattenere quella sorpresa, interrompendo il cammino ordinario. Accadde anche quel giorno a Pietro, Giacomo e Giovanni, quando sul monte alto sperimentarono la bellezza del Vangelo di Gesù (Mc 9,1-9). La gioia era grande: "Maestro, è bello per noi stare qui"; ma l'evangelista annota che era grande pure lo spavento: perché in cuor loro i tre discepoli già temevano di tornare alle solite faccende, smarrendo lo splendore di quell'esperienza. Avrebbero dunque voluto rimanere per sempre sul monte, soli con il loro Signore. Una simile tentazione non era certo nuova: già Mosè ed Elia avevano dovuto attraversarla. Infatti anche Mosè - stufo del suo popolo ribelle - avrebbe voluto finire i suoi giorni sul monte Sinai; Elia - poi - fin dall'inizio era salito sul medesimo monte per fuggire da un popolo che non sopportava le sue parole. Dunque la tentazione che i tre discepoli sperimentano sul monte non è nuova. Ma Gesù la respinge con forza: "Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare a nessuno ciò che avevano visto·È. Dal monte bisogna discendere: e non si deve raccontare nulla fino a quando tutto si sia compiuto. Quello sul monte era soltanto un segno: un segno come i miracoli operati da Gesù; un segno che non interrompe il cammino, ma che incoraggia a proseguire. Così accade anche per le gioie che la vita ci riserva: sono soltanto segni, presagio di quella gioia piena che verrà quando tutto si sia compiuto. E se lo spavento ci blocca, se prevale la paura di un futuro che rimane imprevedibile, ripensiamo per un attimo alla storia di Abramo: egli temeva di perdere quel figlio tanto atteso, e tuttavia "si mise in viaggio" sperando contro ogni speranza; alla fine quel figlio non lo perse, anzi lo ritrovò come benedizione eterna. Anche noi dunque in questa Quaresima ci mettiamo in viaggio, come Abramo: e ci incamminiamo con fiducia, sicuri che verrà la Pasqua del Signore e finalmente darà compimento alla nostra fragile gioia. |