Omelia (20-08-2006)
don Daniele Muraro


Il commento segue lo schema predisposto dall'autore per ogni anno liturgico, che potete trovare cliccando qui.

Dopo aver parlato del momento finale della Messa, ossia del Ringraziamento, ora voglio parlare del momento centrale della celebrazione eucaristica, ossia dell'Offertorio. Del sacrificio della Messa ho già parlato un'altra volta, durante la Quaresima. Ora vogliamo concentrarci sull'offerta che il sacerdote fa a nome suo e di tutta la comunità del pane e del vino.
Non c'è nulla di più comune, e anche necessario, di questi due elementi: il pane e il vino. Essi come dice la liturgia sono il frutto della terra e del lavoro dell'uomo.
In particolare il pane è sinonimo di alimento. Se a uno in casa manca il pane significa che ha raggiunto il gradino più basso della povertà e il ricordo di antiche privazioni impone di non gettare il pane avanzato, ma di conservarlo per usi successivi.
Giobbe riandando indietro con il pensiero poteva vantarsi: "Mai da solo ho mangiato il mio tozzo di pane, senza che ne mangiasse l'orfano".
E il saggio Salomone nel libro dei Proverbi diceva che un tozzo di pane secco mangiato con tranquillità è meglio di una casa piena di banchetti festosi e di discordia.
Quando poi di uno si dice che è buono come il pane, oppure che è un pezzo di pane, significa che si tratta di una persona cortese e squisita.
Fin dal principio della storia del mondo Dio aveva comandato all'uomo "Col sudore della tua fronte mangerai il pane, finché tornerai alla terra". Detto di passaggio la punizione seguita alla cacciata di Adamo ed Eva dal giardino di Eden non sta nel lavoro, ma nella fatica che questo lavoro comporta. Su questo argomento comunque tornerò ancora.
Tutti i mestieri danno pane e san Paolo raccomanda ai quei cristiani di Tessalonica vivevano disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione di mangiare il proprio pane lavorando in pace.
Se ci si stanca del pane sulla mensa, vuol dire che si è finito di apprezzare le cose semplici e genuine. "Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro patrimonio per ciò che non sazia?" dice Dio per mezzo del profeta Isaia e continua "Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti."
Anche la Sapienza nella prima lettura si presenta come una massaia che ha spillato il vino e ha imbandito la tavola; e poi invita: "Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate la stoltezza e vivrete, andate diritti per la via dell'intelligenza".
Il discorso continua nel libro del Siracide in cui stavolta la Sapienza personificata esorta a nutrirsi di se stessa: "Quanti si nutrono di me avranno ancora fame e quanti bevono di me, avranno ancora sete." L'autore del libro biblico intende dire così che chi si siede al banchetto della Sapienza ne rimane istruito al punto che aumenta in lui la voglia di conoscere e di migliorare spiritualmente. La Sapienza non stucca nel senso di stomacare, non darà mai la nausea, ma rende lo spirito più forte e più recettivo all'apporto di essenze benefiche.
Nel Vangelo Gesù applica a sé questa prerogativa: Egli è il cibo spirituale capace di nutrire l'uomo per sostentarlo interiormente, per allargare i confini della sua coscienza e rafforzare la determinazione della sua volontà, per renderlo capace di amore e bontà come Dio aveva previsto dal principio.
Abbiamo detto che Gesù è un cibo spirituale, cioè rivolto allo spirito, ma potremmo dire meglio che Egli viene per nutrire l'uomo tutto intero: anima e corpo in vista della realizzazione piena del suo essere secondo il progetto di Dio.
Infatti Gesù amplia il suo insegnamento aggiungendo una promessa: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno." Dunque chi si accosta al sacramento dell'Eucaristia partecipa alla vita stessa di Dio, che è una vita eterna e ciò coinvolge lo spirito dell'uomo, ma anche il suo corpo.
La promessa di Gesù di dare se stesso come cibo non si riduce ad una figura retorica, ad un'immagine ad effetto, non la dobbiamo intendere come una espressione figurata di una volontà astratta di beneficare, come quando noi diciamo: "Se solo potessi mi farei in quattro per te!", oppure "Mi sono spezzato per lui!".
No, Gesù ha veramente offerto se stesso ai suoi discepoli e a tutta l'umanità, prima sacramentalmente, il Giovedì santo, e poi realmente, il Venerdì santo, sulla croce.
Nel paese delle promesse si muore di fame, ma nella casa che è la Chiesa non manca il pane della Vita che è Gesù Cristo. Diceva ai suoi cristiani San Cirillo di Gerusalemme: "Se ti rattrista il vento gelido dell'invidia, ricorri al Pane degli Angeli, e nel tuo cuore spunterà rigogliosa la carità. Se in te arde la febbre dell'avarizia, cibati di questo Pane, e imparerai la generosità. Se il veleno dell'orgoglio ti gonfia, ricorri all'Eucaristia; e il Pane sotto le cui apparenze si è annichilito il tuo Signore, t'insegnerà l'umiltà."
La condizione per approfittare di questa offerta è una sola: quella di non nascondere la propria fame, ma di rivolgersi con fiducia a chi la può saziare. Più che un premio l'Eucaristia è un sostegno, un sostegno alla nostra debolezza che ci fa sedere stanchi ai bordi della strada.
Oggi difficilmente intendiamo il cibo quotidiano come un premio, lo vediamo meglio come una necessità per la sopravvivenza; se è leggero o leggero genuino come un'occasione per restare od ottenere la salute; se è diviso con parenti e amici come un'opportunità di accrescere la confidenza e l'accordo.
Lo stesso dovrebbe valere per l'Eucaristia; ne abbiamo bisogno come di un alimento indispensabile alla nostra salute spirituale. Naturalmente ci devono essere le giuste disposizioni, ma poi non deve prevalere l'inappetenza o la pigrizia spirituale.
La fame e la tosse dice il proverbio non si possono nascondere. Forse per guarire le tante tossi morali del nostro tempo, occorrerebbe tenere più in considerazione quel cibo speciale che è l'Eucaristia. Per superare una malattia debilitante si consiglia al paziente di mangiare. Intorno a noi vediamo tanta gente che sbuffa', soggetta ai più diversi attacchi di tosse, di stanchezza, di delusione, di sconforto, di disorientamento.
Prendiamo sul serio la Parola del Signore e accostiamoci con fede al Sacramento dell'Eucaristia; non è solo un bel gesto che noi facciamo per il Signore, ma è soprattutto un dono di grazia che il Signore fa a noi.
Sul monte Sinai Dio dette a Mosè le tavole dei Comandamenti. Erano dieci e sono ancora validi. Tratto caratteristico dei comandamenti di Mosè è il divieto. I dieci comandamenti sono come un argine che propriamente non ci dicono che cosa fare, ma ci istruiscono su che cosa evitare trattenendoci dall'andare fuori strada.
Nel caso dell'Eucaristia invece Gesù dà un comandamento positivo: "Chi mangia questo pane vivrà in eterno." Egli ci dà un precetto, non perché lo evitiamo, ma perché lo applichiamo: "Se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita".
Dando spazio al sano principio positivo si riduce l'ambito di influenza della negatività. Tanti dubbi possono tormentare la nostra anima e renderci inquieti e tristi. Possiamo essere presi da mille ansie e incertezze sul che cosa e come fare. Nutriamo la nostra fede con il sacramento dell'Eucaristia, e saranno i nostri dubbi e le nostre inquetudini a consumarsi per inedia.