Omelia (15-10-2006) |
don Daniele Muraro |
Il commento segue lo schema predisposto dall'autore per ogni anno liturgico, che potete trovare cliccando qui. Dopo avere parlato delle virtù occorre anche parlare dei vizi. Non c'è vizio senza la sua scusa, ma pochi carcerieri vigilano sui loro carcerati, come il vizio vigila sui suoi prigionieri. Dunque è necessario parlare anche dei vizi, per evitarli dopo averli conosciuti e anche per trovare la maniera di liberarsene se ce ne si riconosce affetti. Come le virtù sono sette: quattro cardinali e tre teologali, così anche i vizi sono sette, almeno quelli principali o capitali, da cui poi derivano eventualmente gli altri. Nella "Regola dei frati minori" san Francesco ad un certo punto scrive: "Ammonisco anche ed esorto gli stessi frati che, nella loro predicazione, annuncino ai fedeli i vizi e le virtù, la pena e la gloria con brevità di discorso, poiché il Signore sulla terra parlò con parole brevi." E' quello che cercherò di fare anch'io in questa sede. Quando uno va a comperare qualcosa di nuovo, non sopporta che la merce che acquista sia viziata e se una volta arrivato a casa scopre qualche vizio di fabbrica riporta indietro il bene e se lo fa sostituire. Lo prevede la legge a tutela del consumatore. Ebbene come siamo pignoli nel settore dei beni materiali, altrettanto dovremmo essere accorti nel campo della vita spirituale. Anche qui nel va del nostro interesse e di un interesse che supera la contingenza dei beni terreni. Seguendo l'indicazione del Vangelo di oggi voglio incominciare a trattare dei vizi partendo dal vizio dell'avarizia. Non si tratta senz'altro del vizio peggiore, ma ha la sua gravità e come tentazione è sempre presente alla nostra coscienza, soprattutto per come è impostata la società ai nostri giorni. Apro con una obiezione: c'è che dice che l'avarizia non è peccato: infatti non è un peccato contro Dio, non è un peccato contro se stessi e non è un peccato contro il prossimo: col ritenere i propri beni infatti non si fa ingiuria a nessuno. Dunque sembra che l'avarizia non sia un peccato. Però i mezzi devono essere proporzionati al fine: per esempio la medicina alla guarigione. Se uno sta bene e assume dosi massicce di antibiotici, così per prevenzione, fa a finire che si ammala. Così se uno ha abbastanza per una vita tranquilla e decorosa e vuole ammassare all'infinito senza condividere noi lo definiamo avaro. L'avarizia infatti consiste in uno smoderato amore per il possesso. Il fine dell'uomo è la beatitudine e i beni esterni non sono che beni strumentali per il raggiungimento di questo fine ultimo che è il solo degno dell'uomo. Se uno deve viaggiare è meglio per lui recarsi alla stazione e prendere il treno, piuttosto che fare collezione di trenini giocattolo. Così se la felicità sta in una relazione felice con il prossimo e con Dio si fa torto al prossimo, a Dio e anche a se stessi se si antepone ad una relazione positiva con queste che sono persone un affetto esagerato e morboso per le cose materiali e per il loro possesso. Attaccarsi alle cose materiali è proprio delle personalità e delle civiltà in declino che hanno perso la fiducia nel futuro, vedono presentarsi all'orizzonte delle minacce e cercano di premurarsi in qualche maniera. Cercare di arricchire unicamente davanti agli uomini e non davanti a Dio è un comportamento sbagliato condannato dal Vangelo:: "Stolto," dice Gesù nella parabola dell'uomo ricco "questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?" E termina: "Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio". La bontà dell'uomo nei riguardi delle ricchezze consiste in una certa misura: e cioè consiste nel desiderare il possesso delle cose in quanto sono necessarie alla vita, secondo le condizioni di ciascuno. Nell'eccedere questa misura si ha un peccato: e cioè nel volerne acquistare, o ritenere più del dovuto. Dove sta dunque la malvagità dell'avarizia? Saremmo tentati di rispondere: negli altri: in chi ha di più e non si accontenta mai di dove è arrivato e sarebbe disposto a fare carte false pur di incrementare il suo capitale. Questa risposta però rivela un vizio diverso e si chiama invidia. Per considerare equamente la lusinga del vizio dell'avarizia occorre un certo distacco e anche una certa sincerità con noi stessi. L'avarizia è un peccato spirituale: coinvolge chi ha troppo, come anche chi ha poco. Sarebbe sbagliato considerare l'avarizia un peccato sensibile; quando uno mangia troppo, o beve troppo, ossia commette un peccato di gola, poi sta male fisicamente; invece quando uno accumula o trattiene per sé di regola non ne va di mezzo la sua salute, semmai quella degli altri. L'avaro nell'oggetto materiale non cerca un piacere fisico, ma dell'anima: cioè il piacere di possedere la ricchezza. E qui è difficile dire che ci sia qualcuno esente da questo rischio. La felicità è il pieno compimento di ogni desiderio e il denaro sembra assicurare questa felicità in quanto sembra che attraverso di esso si possa ottenere tutto. Più precisamente l'avarizia ci fa vedere il danaro come garanzia per ottenere qualsiasi cosa; a questa considerazione sembra dare ragione anche il libro del Qohelet quando dice che "tutto ubbidisce al danaro". In realtà esistono dei beni non commerciabili e sono anche i più importanti: ossia la salute e la salubrità dell'aria, l'amicizia, la pace del mondo, la serenità della coscienza e la gioia di vivere. Come il corpo non è tutto dell'uomo, ma esiste anche l'anima, così il denaro non è tutto nella società, ma esistono anche le relazioni umane. Alle tante offese a cui queste relazioni umane sono sottoposte a motivo del commercio che si fa anche dei sentimenti e della dignità personale i cristiani rispondono con la generosità che non è lo spreco o la dissipazione, ma è il farsi carico dell'indigenza del prossimo e delle necessità della comunità. Lo scrigno degli avari è simile all'inferno: se c'entrano i denari, non ne escono in eterno. Il paradiso invece è condivisione, mantenendo certo sempre la propria dignità, ma senza far pesare il dono che si fa all'altro. Lo scrittore francese Balzac alla notizia della morte di uno zio ricco e avaro scrisse: alle cinque antimeridiane mio zio e io siamo passati a miglior vita. Non aspettiamo dopo morti a fare del bene, ma facciamo subito in modo che vada a vantaggio nostro oltreché degli altri, a cui non potremo impedire di impadronirsi delle nostre cose quando non ci saremo più. Alla povertà mancano molte cose, all'avarizia tutte, ma il rimedio a questa situazione non è lontano, basta un po' di buon senso e di generosità. San Paolo a Timoteo scrive: "L'attaccamento al denaro infatti è la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono da se stessi tormentati con molti dolori." Evitiamo per quanto possibile fin da ora questi mali, non è difficile, forse sarà alleggerita la tasca, ma se l'offerta è fatta bene sarà alleggerita anche l'anima. Termino con una considerazione del filosofo romano Seneca: "Gli uomini, nella loro stupida avarizia, distinguono il possesso e la proprietà e non giudicano propri i beni pubblici; ma il saggio invece giudica suo soprattutto quello che possiede in comune con l'umanità intera." |