Omelia (05-11-2006)
don Daniele Muraro


Il commento segue lo schema predisposto dall'autore per ogni anno liturgico, che potete trovare cliccando qui.


Gli Ebrei non avevano il Padre nostro, questa preghiera ce l'ha insegnata Gesù; c'era però una formula che recitavano quotidianamente ed è quella che abbiamo ascoltato nella prima lettura, cominciando dal punto dove dice: "Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio...". In ebraico si dice: "Shemà Israel".
Noi sappiamo che la fede viene dall'ascolto; infatti come abbiamo detto domenica passata la fede è conoscenza di realtà che superano la nostre capacità naturali attraverso una rivelazione da parte di Dio; a questa rivelazione si deve prestare ascolto, la si deve udire in maniera poi da potervi anche ubbidire.
In particolare la fede di Israele è la fede in un unico Dio, il Signore. Questo Signore vuole essere riconosciuto diverso da tutti gli idoli degli altri popoli, perché solo Lui è in grado di intervenire potentemente nella storia umana.
Se gli altri dei potevano pretendere di essere serviti, il Dio di Israele vuole essere amato e non di un amore qualsiasi, ma di un amore esclusivo. Infatti la preghiera continua: "Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze". Il Dio di Israele vuole essere amato non solo in determinate circostanze, ma sempre, perché questo è un precetto che deve "rimanere fisso nel cuore".
Avendola nelle orecchie e anche sulle labbra quotidianamente, lo scriba del Vangelo di oggi è in grado di apprezzare adeguatamente la risposta di Gesù alla sua domanda su quale sia il comandamento più importante: Gesù cita un passo conosciuto dell'Antico Testamento e dimostra così che il comando di Dio non è lontano, ma vicino e in più corrisponde alle esigenze di bene dell'animo umano.
A questo primo comandamento Gesù ne aggiunge un secondo, sempre ricavato dall'Antico Testamento: ossia "Amerai il prossimo tuo come te stesso".
Questi due comandamenti ne formano uno solo e non ce n'è nessuno più grande.
L'amore di cui parla Gesù è un amore di carità e la carità è una forma di amicizia. Infatti esistono diversi tipi di amore. Uno può avere amore per la buona cucina, o per la musica, ma questo non è un amore di carità. L'amore di carità è interpersonale, ossia ha di mira il bene della persona amata.
Il punto di partenza è l'amore di Dio, ossia prima ancora dell'obbligo di amare Dio, il fatto che Dio ama il suo fedele. L'unico Dio in cui Israele crede, ama personalmente. Il suo amore, inoltre, è un amore elettivo: tra tutti i popoli Egli sceglie Israele e lo ama - con lo scopo di guarire in tal modo l'intera umanità. Al vertice della Rivelazione, durante l'ultima Cena Gesù si rivolge ai suoi discepoli con queste parole: "Io non vi chiamo più servi, ma amici".
Lo stesso san Giovanni, testimone di quei momenti cruciali, poi scriverà così: "In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima per i nostri peccati." e ancora: "Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli."
Amore di Dio e amore del prossimo sono uniti, ma la precedenza spetta all'amore di Dio: prima di tutto la carità è una virtù, che ci unisce a Dio, e con la quale lo amiamo, quando il nostro affetto è assolutamente retto.
Il momento iniziale di questo incontro con l'amore di Dio è il battesimo. Si produce in questa circostanza un effetto basilare nella vita del battezzato che possiamo chiamare il riequilibramento della capacità di amare.
Come alle gomme delle automobili si fa la convergenza per evitare che tirino troppo a destra o a sinistra, così nella vita del cristiano il battesimo opera una riequilibratura ed essa consiste nel mettere Dio al primo posto. Nel momento in cui Dio è amato più di tutto, tutti gli altri amori assumono la loro vera posizione.
Dio deve essere amato con tutto se stessi: per accettare questa prescrizione occorre avere capito che Dio è tutto e noi non possiamo vivere altro che per lui.
Fra i molti progressi di cui si può vantare l'Occidente, non si può contare anche un aumento del senso religioso e questa è una mancanza grave, che gli altri popoli ci rimproverano.
"Chi crede non è mai solo" ha detto il papa nel suo recente viaggio in Germania e poco prima aveva affermato: "Le popolazioni dell'Africa e dell'Asia ammirano, sì, le prestazioni tecniche dell'Occidente e la nostra scienza, ma si spaventano di fronte ad un tipo di ragione che esclude totalmente Dio dalla visione dell'uomo. La vera minaccia per la loro identità non la vedono nella fede cristiana, ma piuttosto nel disprezzo di Dio e nel cinismo che considera il disprezzo del sacro un diritto della libertà ed eleva l'utilità a supremo criterio per i futuri successi della ricerca.
Cari amici, questo cinismo non è il tipo di tolleranza e di apertura culturale che i popoli aspettano e che tutti noi desideriamo! La tolleranza di cui abbiamo urgente bisogno comprende il timor di Dio – il rispetto di ciò che per l'altro è cosa sacra.
Ma questo rispetto per ciò che gli altri ritengono sacro presuppone che noi stessi impariamo nuovamente il timor di Dio. Questo senso di rispetto può essere rigenerato nel mondo occidentale soltanto se cresce di nuovo la fede in Dio, se Dio sarà di nuovo presente per noi ed in noi."
Caratteristica degli amici è di avere tutto in comune: ora se noi vogliamo essere amici di Dio, come Dio ha voluto essere familiare dell'uomo, riceviamo la comunanza del suo amore. L'amore con il quale amiamo lo riceviamo da Dio e lo restituiamo a Lui diffondendolo intorno a noi.
Secondo gli antichi l'amicizia godeva di cinque proprietà. Qualsiasi amico prima di tutto vuole che il proprio amico esista e viva; secondo, gli desidera del bene; terzo, compie del bene a suo vantaggio; quarto, ha piacere di vivere assieme con lui; quinto, concorda con lui, godendo e rattristandosi delle medesime cose.
Queste proprietà dell'amicizia le possiamo riscontrare anche nel Padre nostro, che così diventa il manifesto dell'amore del nostro amore Dio, per noi che apparteniamo al Nuovo Testamento, così come lo "Shemà Israel" (Ascolta Israele) era il manifesto dell'amore per Dio del pio Ebreo.
Nel Padre nostro noi riconosciamo che Dio esiste e vive: Egli è nei cieli; chiediamo che il suo nome venga conosciuto e apprezzato (sia santificato il tuo nome); vogliamo che venga il suo regno; manifestiamo la nostra volontà di rimanere con lui nella preghiera e con lui ci rallegriamo del pane quotidiano mentre ci rattristiamo del male, da cui chiediamo di essere liberati.
Se c'è questo amore di Dio, ci sarà anche l'amore del prossimo. Infatti, dopo aver recitato il Padre nostro, durante la Messa, ci scambiamo il segno della pace.
Se siamo in pace con Dio, saremo in pace anche con il nostro prossimo anzi diventeremo operatori di pace, dimostrando così di essere degni figli di quel Dio che fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi, sui giusti e sugli ingiusti. E' questa pace che chiediamo anche oggi al Signore come frutto della carità che viene da Lui.