Omelia (03-12-2006)
don Daniele Muraro


Il commento segue lo schema predisposto dall'autore per ogni anno liturgico, che potete trovare cliccando qui.

Vegliate e pregate in ogni momento, dice Gesù nel Vangelo di oggi. La vigilanza e la preghiera sono le due maniere che il Signore suggerisce per sfuggire ad un pericolo grave quanto strano: è il pericolo dell'appesantimento del cuore, Gesù lo chiama così. Due domeniche fa ho commentato l'espressione "In alto i nostri cuori" a cui si risponde con l'acclamazione "Sono rivolti al Signore!".
Un cuore che si slancia verso l'alto è un cuore agile rivolto al Signore; un cuore pesante che si trascina stancamente è un cuore lontano dal Signore e rivolto alle cose della terra.
Il cuore è il centro del corpo umano e quello che manda il circolo il cuore arriva in ogni parte dell'organismo e a lui poi ritorna. Il cuore dunque è colui che distribuisce e raccoglie, invia i viveri e riprende la spazzatura, fa da centro di smistamento e di depurazione.
Il cuore però può anche cedere, di schianto, o anche rallentare fino a fermarsi. Occorre dunque prendersi cura del proprio cuore.
Parlando del cuore Gesù non intendeva dare una lezione di medicina, eppure se Egli ha scelto questo esempio per illustrare i pericoli di una vita passata lontano dalle proprie responsabilità e dalla ricerca del vero bene un motivo sicuramente c'è. Fermiamoci un attimo a considerare il rapporto con il nostro corpo.
Uno che si abbandona a dissipazioni, ubriachezze o che solo si lascia prendere dagli affanni della vita non è nella condizione migliore per attendere alla propria salvezza. Dal proprio corpo pretende troppo, lo sfibra e lo snerva, oppure come si dice adesso lo stressa. In queste condizioni anche lo spirito non può non risentirne e in maniera negativa.
Tutti ogni giorno abbiamo a che fare con strumenti di vario genere. Adoperandoli sappiamo bene che ne possiamo fare un uso improprio, inefficace o rischioso, e sappiamo pure che ogni utensile ha i suoi limiti operativi per cui non possiamo insistere più del giusto per esempio nel picchiare con il martello o nel tendere una corda per quanto robusta. Superato il punto critico i casi sono due: o si rompe quello su cui stiamo lavorando o si guasta lo strumento con il quale stiamo intervenendo.
Una molla si fa apprezzare per la sua elasticità, ma esiste una forza di trazione oltre la quale viene snervata fino a perdere le sue caratteristiche peculiari, come anche esiste una forza di pressione oltre la quale quella molla diventa un filo di ferro schiacciato.
Per adoperare bene un utensile, occorre dunque conoscere le proprietà e fare tesoro dell'esperienza che viene dagli sbagli precedenti propri o altrui.
Lo stesso vale per il corpo. San Francesco lo chiamava Frate Asino e voleva indicare con questo che il corpo è il nostro servitore, colui che ci permette di raggiungere i nostri obiettivi, ma è anche il nostro compagno di viaggio, senza il quale è impossibile andare avanti.
Non ci si può identificare con il proprio corpo, altrimenti andando in deperimento il corpo, svanirebbe ogni componente umana e invece noi sappiamo che l'anima sopravvive al corpo ed è quella che gli dà forma e vitalità.
Non si può neanche disprezzare il proprio corpo fino al punto da trascurarlo e offenderlo; sa bene lui stesso, il corpo, come vendicarsi e pretendere il rispetto dei suoi diritti. Se fa sciopero il corpo, anche l'anima va in panne.
Noi abbiamo un corpo, ma anche siamo un corpo: nel tenere assieme queste due realtà consiste la nostra saggezza a riguardo della nostra persona. Chi pensa di essere solo corpo, non conosce la parte più nascosta e più preziosa di sé che è la propria anima, chi invece presume di essere solo spirito prima o poi dovrà fare i conti con i limiti della sua costituzione fisica.
Diceva papa Benedetto nella sua enciclica: "Deus caritas est": "L'uomo diventa veramente se stesso, quando corpo e anima si ritrovano in intima unità... Se l'uomo ambisce di essere solamente spirito e vuol rifiutare la carne come una eredità soltanto animalesca, allora spirito e corpo perdono la loro dignità. E se, d'altra parte, egli rinnega lo spirito e quindi considera la materia, il corpo, come realtà esclusiva, perde ugualmente la sua grandezza." E riporta poi un episodio: l'epicureo Gassendi, scherzando, si rivolgeva a Cartesio col saluto: "O Anima!". E Cartesio replicava dicendo: "O Carne!".
Gli Epicurei erano coloro che riconoscevano solo il mondo materiale e il loro stile di vita poteva essere sintetizzato così: "Mangiamo e beviamo, che presto moriamo!"
Cartesio al contrario stimava il corpo una cosa: solo il pensiero per lui aveva dignità. La sua frase famosa è: "Penso, dunque sono!". Noi esistiamo però anche prima di potuto fare un pensiero logico e continuiamo ad esistere anche quando sospendiamo la nostra coscienza come nel sonno o nella malattia grave. Giustamente è stato obiettato che la frase risolutiva di ogni dubbio non è: "penso dunque sono", ma nella prospettiva cristiana "sono stato pensato e dunque sono!", non sono qui per caso ma perché qualcuno mi ha pensato e voluto dall'eternità.
"Nessuno mai ha preso in odio il proprio corpo" dice san Paolo ai Cristiani di Efeso, "al contrario la nutre e la cura" e Gesù prima ancora aveva detto: "Non c'è nulla fuori dell'uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall'uomo a contaminarlo". Egli intendeva così dichiarare permessi tutti gli alimenti, perché sono le intenzioni a rendere cattive le azioni, e non ci sono alimenti di per se stessi capaci di rendere cattivo un uomo, ma è l'uomo che rende buoni o cattivi tutte le cose a seconda dell'uso che ne fa.
Così il piacere legato al cibo o alla generazione non è da condannare in sé, ma quando è staccato dal suo fine e diventa uno strumento di ottundimento mentale e morale.
L'intemperanza del mangiare cacciò Adamo dal paradiso terrestre; e fu essa che al tempo di Noè provocò il diluvio (secondo il Crisostomo). Noè stesso dovette farne le spese, quando sempre secondo il libro della Genesi, scoprì la vite e si ubriacò, perdendo il suo contegno davanti ai figli, uno dei quali lo disprezzò per questo.
Non bisogna confondere il mezzo con il fine. Non si vive per mangiare, ma si mangia per vivere. Per gustare la vita in pienezza occorre avere motivi forti, grandi ideali; altrimenti ci si ripiega su soddisfazioni marginali e una di queste appunto è il vizio della gola.
Un grande ideale per san Paolo era quello di annunciare e testimoniare il Vangelo. Nella lettera ai Corinti dice: "Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile. Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio il pugilato, ma non come chi batte l'aria, anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso squalificato."
San Paolo faceva questo perché aveva una fiducia incrollabile nella resurrezione e nel premio che Dio darà ai suoi amici fedeli. Sorge a questo punto un'obiezione: e se non fosse vero. San Paolo risponde, riportando un proverbio del suo tempo, quello degli epicurei: "Se è vero che i morti non risorgono, mangiamo e beviamo, perché domani moriremo.", ma aggiunge: "Non lasciatevi ingannare".
Ne uccide più la gola che la spada, dice un proverbio nostrano, ma qui non si tratta di fare delle colpe, quanto piuttosto di capire che "il cibo superfluo che mangiamo nuoce più all'anima che al corpo.", infatti esagerare nella ricerca dei piaceri del gusto, ci distoglie l'attenzione dal nostro destino e dal suo mistero.
Il cibo ci dà la forza per sostenere le fatiche fisiche, la preghiera e la rinuncia ai piaceri materiali ci rendono più forti spiritualmente, dimostrano che la nostra speranza è nel Signore e che siamo pronti anche a dei sacrifici pur di non perdere quello che è essenziale.
Il tempo di Avvento che inizia oggi, ha proprio questo valore, di farci rientrare in noi stessi, di farci valutare dove sta la nostra speranza, se qualcosa o qualcuno ha preso il posto di Dio nella nostra vita e di farci compiere le scelte corrispondenti necessarie per dimostrare con la vita la coerenza della nostra fede.