Omelia (20-03-2008) |
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Una settimana... santa La nostra vita si svolge dentro un ritmo temporale che si ripete sempre uguale: è il ritmo della settimana. Ma ci sono alcune settimane o alcuni giorni in un anno che si distinguono da tutti gli altri, quando ricordiamo l'anniversario di qualche evento importante, quando possiamo incontrare qualcuno che amiamo e vediamo poco. Anche la liturgia, che cerca di far incontrare la nostra vita con il Mistero della vita di Gesù, si svolge dentro un ritmo temporale sempre uguale, e pone nella domenica la celebrazione del mistero principale della nostra fede, la Risurrezione di Gesù. Ma durante l'anno per i cristiani c'è una settimana per così dire speciale, uguale alle altre ma più importante di tutte: è la settimana in cui celebriamo il mistero pasquale, che si apre con la domenica delle Palme e diventa particolarmente intensa nel giorni di giovedì, venerdì e sabato, durante i quali celebriamo il santo triduo pasquale. Cosa ha di diverso la settimana santa da tutte le altre? In essa, oltre che celebrare il mistero eterno e universale della morte e risurrezione di Gesù Figlio di Dio, in un certo senso siamo invitati a riviverlo, ad accompagnarlo anche cronologicamente, materialmente, attraverso i riti che durante secoli di vita la Chiesa ha creato. Per il cristiano che decide di vivere la settimana santa come degli "esercizi spirituali" (magari sacrificando qualcosa d'altro, come ferie e compere), il fatto di uscire di casa più volte durante una settimana per recarsi in chiesa (dove normalmente ci rechiamo una volta alla settimana) è un segno concreto che sta accompagnando gli ultimi momenti della vita di Gesù. E ciò lo fa non da solo, ma con la comunità dei discepoli, che come lui seguono Gesù. Questo andare e venire dalla chiesa, il passare dei giorni in cui riviviamo nel rito gli ultimi passi della vita di Gesù, ci ricordano la concretezza della vita e della passione-morte di Gesù, e ci insegnano che possiamo seguirlo solo nel passare dei giorni, nel passare degli anni, con la nostra tenace presenza, con le nostre debolezze, nelle condizioni concrete in cui, al passare di ogni anno, ci troviamo. Come in Gesù la rivelazione di Dio si è realizzata nel tempo di una vita (che ha avuto nell'ultima settimana una concentrazione straordinaria), così per ciascuno di noi la fede si vive e si esprime nel tempo concreto della nostra vita, nel passare degli anni: la liturgia, in questo tempo terrestre, è fonte e culmine del nostro cammino di fede. L'ultima sera trascorsa coi suoi Così, nel ritmo cronologico e teologico della settimana santa, la sera del giovedì ricorda e celebra il momento dell'intimità ultima di Gesù con il gruppo dei suoi discepoli. È il giorno eucaristico per eccellenza, in cui facciamo memoria dell'Eucarestia che Gesù ha celebrato con i suoi prima di morire. La S.Messa, che celebriamo tutti i giorni, il cui rito si è accresciuto e modificato molto durante i secoli, in realtà è la memoria di ciò che Gesù ha fatto e detto l'ultima sera della sua vita su questa terra. A sua volta, in quella sera Gesù ha voluto riassumere in due gesti semplice e brevi parole il senso di tutto quello che aveva fatto e detto fino ad allora; ha voluto anche anticipare il perché di quello che sarebbe successo quel venerdì, quel sabato e che l'alba dell'ottavo giorno avrebbe rischiarato alla mente e al cuore dei discepoli. La cena, la Pasqua, la lavanda Le letture della liturgia della Cena del Signore ci parlano dei gesti compiuti da Gesù in quella sera. Nella lettera ai Corinti Paolo fa memoria della antica tradizione che lui stesso ha ricevuto su Gesù: la sera della "consegna" (il tradimento di Giuda, attraverso cui è Dio che consegna il Figlio all'umanità per amore), durante la cena rituale della Pasqua, ha detto delle parole nuove sul pane e sul calice: è il mio corpo, è il mio sangue, è la nuova alleanza. Gesù ha detto con il segno del pane che il senso della sua vita è darsi come cibo, è perdersi per produrre la vita in chi ne mangia. Così Paolo richiama i Corinti, che mentre celebravano l'Eucaristia vivevano tra loro divisioni fomentate dall'egoismo, che è l'esatto contrario del gesto di totale altruismo di Gesù. Sullo sfondo di questo gesto appare la Pasqua degli ebrei, la Pasqua dell'uscita dalla schiavitù dell'Egitto (il racconto dell'esodo): Gesù parla di nuova alleanza, apre il cammino del compimento di quanto Dio aveva cominciato a fare salvando gli ebrei dall'Egitto. Non si può comprendere l'ultima cena di Gesù senza ricordare la prima Pasqua; non si può capire la salvezza dall'Egitto se non come figura della salvezza dalla morte del peccato, che Gesù ha realizzato e ha offerto a tutte le nazioni. Il vangelo di Giovanni è l'unico che non racconta l'istituzione dell'Eucaristia, ma in questa messa sta al centro, raccontando il gesto della lavanda dei piedi. Il contrasto tra il Signore che ha ricevuto da Dio tutta l'autorità e il gesto umile dello schiavo che si piega a lavare i piedi ai discepoli domina la scena, che la liturgia permette che sia ripetuta e rappresentata nelle nostre chiese in questa sera. È perché passi attraverso gli occhi, perché non è una logica da capire, ma un gesto impensabile da imitare. Ha lo stesso senso del pane dato per la vita: è una persona che si abbassa per servire un'altra. E questa persona è il Figlio di Dio. Gesù e noi È significativo che tutti e due i gesti di Gesù si concludano con un invito/ordine: fate anche voi lo stesso. Gesù non vuole semplicemente insegnare qualcosa, vuole aprire un cammino in cui i suoi possano entrare e trovare la salvezza, la pace. Con il gesto del pane e del lavare i piedi Gesù vuole mostrare che si dà totalmente, ma non si perde. Al contrario di noi, che ci perdiamo senza darci, ci perdiamo perché non ci diamo totalmente. Come riesce Gesù a fare ciò? Riesce a darsi totalmente senza perdersi perché è già tutto del Padre, e si sente del Padre. Ha già scoperto il significato profondo della sua vita: sentirsi profondamente amato dal Padre. Chi ama si sente bene quando fa ciò che piace all'amato. Gesù riceve dal Padre il comandamento di amare i suoi fino alla fine e per questo si dà totalmente trovandosi, sicuro di non finire nel buio, nel non senso, nel vuoto, nel fallimento, ma nell'abbraccio del Padre. Noi spesso viviamo e agiamo senza riconoscere il senso del nostro stare nel mondo: da qui nascono le nostre paure, le nostre bugie, le nostre fughe, e anche la nostra tristezza. Abbiamo paura di uscire dal nostro egoismo dando qualcosa di nostro agli altri. Pensiamo: come posso dare agli altri se non ho abbastanza neppure per me?! Ma in ciò ci sbagliamo, il nostro sguardo è troppo basso, non facciamo conto su Dio e su ciò che Dio ci promette. Contemplando (=guardando in profondità) l'ultima cena di Gesù, e poi la sua passione, morte e risurrezione, chiediamo al Signore che ci aiuti a superare la nostra miopia e che ci faccia sperimentare la gioia segreta della Pasqua: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo. Se muore porta molto frutto. Commento a cura di padre Gianmarco Paris |