Omelia (04-05-1997) |
mons. Antonio Riboldi |
Bisogno di amicizia Alla fine della esperienza con gli Apostoli che Gesù "aveva scelto" (e l'amicizia è sempre una scelta) fa questa confidenza: questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se farete quello che io comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone: ma vi ho chiamati amici, perché tutto quello che io ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi. Siamo abituati a considerare Dio "lontano" o "fuori" dalla nostra vita: ed invece Lui ama ammetterci nel suo amore, che ha le sue leggi: leggi che sono i pilastri di ogni amicizia. Fa persino impressione sentire Dio dirci: "Tu sei mio amico": "ossia" "Io per te sono un amico" pronto a dare la vita per te. Forse noi abbiamo banalizzato la parola amicizia, riducendolo ad un fatto tanto superficiale che non sfiora neppure la superficie del cuore. Abbiamo paura che "aprendoci" ad una persona, questa ci "usi", per i suoi interessi, lasciandoci poi l'amarezza di un incubo, se non peggio. Abbiamo ridotto le nostre relazioni, che dovrebbero essere improntate ad amicizia, a un parlarci sulla porta di casa di ciò che siamo. Abbiamo paura di essere traditi o non capiti o altro. Quando ero parroco nel Belice, dopo il terremoto del 1968, di fronte alla vergogna della speculazione nella ricostruzione, portai con me 50 bambini dalle massime autorità dello Stato perché "vedessero" di persona la sofferenza di un baraccato. Fu un evento che scosse nel profondo la coscienza della intera nazione e tenne a lungo banco nella pubblica opinione. Tornando in Parrocchia, la domenica, durante la Messa, leggendo la diffidenza di tanti ("perché avrà fatto tutto questo? Che interessi ci sono sotto?") sentii il dovere di spiegarmi. "Sapete perché ho fatto questo?" "Per nessun interesse personale", solo perché vi amo e amare vuol dire caricarsi della sofferenza di chi si ama. Non ebbi tempo di finire la frase "perché vi amo" che scoppiai in un pianto dirotto, come volessi suggellare in modo concreto quanto avevo affermato. Non ci fu modo di frenare quel pianto. Fuggii in sacrestia e da lì alcuni uomini mi accompagnarono in baracca dicendomi: "E' la più bella omelia che poteva fare". E' proprio vero che siamo tutti orfani in attesa di chi ci adotti e spalanchi il nostro cuore alla speranza ed alla gioia, ed alla comunione. E tutti siamo padri di chi attende, assetato, speranza, gioia e comunione. Tutti i padri e figli a simboleggiare in questa ricerca e in questo dono e nell'amore che ne deriva, Dio, di cui siamo immagine. Ed anch'io oggi, come Gesù dico a te che mi incontri: "Tu sei mio amico". Fìdati. |