Omelia (19-03-2003)
padre Gian Franco Scarpitta
Lavoratore e papà

A ragione la liturgia odierna ci invita a rompere il silenzio intorno alla recita del "Gloria a Dio nell'alto dei cieli...", poiché la solennità di oggi ci ispira molta serenità nel farci riflettere sulla figura di colui che era stato scelto come padre "putativo" del Signore.
Quale riflessione ci sovviene?
Non possiamo che pensare a tutti i padri di famiglia, che con la loro continua presenza, il loro sacrificio sul lavoro, la loro costante preoccupazione e perfino con i loro rimproveri, ammonimenti e privazioni edificano la vita familiare, soprattutto avendo a cuore il benessere materiale e spirituale dei propri figli...
Che cosa non farebbe un padre per il futuro dei suoi ragazzi? E come lo ricambiano questi ultimi una volta realizzatisi molte volte grazie ai suoi sacrifici e alle sue pene? Perché succede che tanti anziani siano costretti alla solitudine e all'abbandono molte volte fra le mura di un ospizio, senza che i loro figli si ricordino di loro? Eppure essi si sono sacrificati, hanno lottato, si sono sottoposti a molteplici difficoltà e peripezie perché i loro ragazzi potessero crescere serenamente e senza che nulla potesse loro mancare!
Né possiamo omettere di considerare la carenza affettiva in cui vengono a trovarsi tanti bambini che perdono il loro papaà in età prematura, né quelli che non hanno mai avuto l'ccasione di conoscere il loro vero padre naturale...
Nonostante tutte queste esperienze, che sono poi emblema della malattia della nostra società, il padre è sempre il padre. Non gli importa come sarà trattato, né che cosa i suoi figli possano pensare un giorno di lui, ma quello che per lui conta è soltanto il benessere materiale e spirituale di coloro a cui ha dato la vita, i
propri figli.
Ed è per questo che la paternità umana è espressione evidente della paternità di Dio: non possiamo non aver prova dell'amore di Dio nei nostri confronti, quando consideriamo come questo si renda manifesto atraverso tantissimi papà di famiglia e concludere che il "primo" ad essere nostro padre è Dio. Del resto, Gesù stesso ci ha insegnato a chiamarlo "Abbà"=caro papà, secondo un linguaggio del tutto confidenziale che scardinava le apettative dell'epoca.
La scrittura ci mostra la premura paterna di Tobi che al proprio figlio Tobia un nobile testamento realtivo al timore di Dio e all'amore verso il prossimo (Tb 4)e le esortazioni del Siracide invitano i figli al rispetto e alla riverenza verso i propri genitori, specialmente verso il padre; mentre la parabola conosciuta con l'appellativo "del figliol prodigo" sottolinea la pazienza d'amore paterno esercitata nei confronti di un figlio snaturato che tuttavia ritorna a casa dopo aver delapidato i propri beni con le prostitute. Queste e altre immagini ci vengono offerte per sottolineare come L'amore di Dio nei nostri confronti si palesi attraverso l'amore e la premura di un genitore.

Che dire poi dello stesso Gesù, che aveva sperimentato in prima persona l'amore di Dio Padre anche attreaverso la figura di Giuseppe, umile artigiano e lavoratore?
Certamente avrà condiviso con il genitore gli affanni della vita lavorativa con i relativi momenti di crisi, le speranze del futuro, le dificoltà del presente e senza dubbio avrà usufruito dei consigli di questo santo uomo artigiano sul quale non possiamo non soffermarci: la tradizione ce lo descrive come uomo "silenzioso e lavoratore", tipica caratteristica di chi nelle proprie attività mira esclusavamente all'efficienza orientata al beneficio del prossimo e per questo si adopera senza mettersi troppo in mostra, evitando la vanagloria e servendo gli altri senza "perdersi in
chiacchiere".
I vangeli ce lo mostrano molto attento alla volontà divina, se è vero che qusti accetta di dover accogliere Maria senza riserve, conscio che il bimbo che portava nel grembo era dono dello Spirito Santo (Mt 1, 18-20) e ce lo descrivono molto sollecito, allorquando, assieme a Maria, conduce il proprio figlio Gesù in terra straiera per sfuggire alla persecuzione di Erode. Saranno quelli anni sacrificati, nei quali sarà necessario adattarsi alle prerogative di un altro popolo come gli Egiziani, che ignorando il vero Dio si prostrano ad altre divinità; nei quali ci si dovrà adattare a vivere di stenti, nulla possedendo di proprio, ma questo e altro viene fatto da Giuseppe in vista del beneficio del proprio bambino, che sa essere il Figlio di Dio. Che dire poi delle pene che certo dovettero affrontare lui e la sua sposa, allorquando vennero a sapere che il caravanserraglio (=albergo destinato ai pellegrini di passaggio!) non aveva posti a disposizione per loro e per questo dovettero adattarsi ad un alloggio di fortuna come la gelida grotta?
San Giuseppe risulta insomma una figura molto attuale per la nostra generazione che cerca di individuare i criteri comportamentali per una retta convivenza familiare: in parecchie circostanze manca il dialogo e la reciproca comprensione all'interno delle nostre famiglie. In moltissime di esse ci si incontra in pochissime occasioni e molte volte anche dei motivi banali infrangono la dimensione dei rapporti fra genitori e figli.
Quale la prospettiva migliore?
Nessun'altra se non quella del dialogo, cioè della reciproca valorizzazione e comprensione: è giusto che i genitori esigano il rispetto dai loro figli e che questi si dispongano ad imparare dalle loro esperienze e a considerare i loro sacrifici senza esternare troppe pretese; ma è anche conveniente che i giovani vengano ascoltati secondo le medesime aspettative nei loro problemi, nelle loro esigenze, nella continua ricerca dei loro ideali e nella necessità di esercitare la loro spensieratezza anche negli svaghi. Specialemnte in quel periodo così travagliato e complesso, anche se molto bello, che si chiama adolescienza.