Omelia (14-09-2008) |
Suor Giuseppina Pisano o.p. |
La ventiquattresima domenica del Tempo Ordinario, cede, per così dire, il passo alla festa dell’Esaltazione della Croce; era il lontano 13 settembre del 335, e l’imperatore Costantino, assieme alla madre Elena, faceva consacrare la grande Basilica della Resurrezione, divenuta, col tempo, la Basilica del Santo Sepolcro, ancor oggi, meta di pellegrinaggi; Basilica che include, al suo interno, la piccola altura del Calvario, e il Sepolcro del Redentore. Il giorno successivo, il 14 di quello stesso mese, iniziò la solenne venerazione della Croce, reliquia trovata dalla stessa Imperatrice, come vuole la tradizione; questo, il ricordo storico, sul quale si fonda la festa liturgica, che, oggi, la Chiesa celebra, riproponendo il segno del sacrificio del Cristo alla contemplazione di tutti i fedeli. ".. come Mosè innalzò il serpente nel deserto, sono le parole di Gesù a Nicodemo, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo.." Il Maestro rievoca quel lontano, faticoso peregrinare del popolo eletto nel deserto, in cammino verso la libertà, un percorso che avanzava tra insidie mortali, per cui, su comando di Dio, Mosè fabbricò quel serpente di bronzo, guardando il quale, si veniva liberati dal veleno mortifero dei serpenti.(Nm.21) Il deserto, arido e inospitale, il " deserto senza strade", è il simbolo dell’esodo che ogni uomo compie, per allontanarsi dal mondo del male e avviarsi verso la libertà e la salvezza; un esodo spirituale, che risponde alla chiamata di Dio, il quale vuole che ogni uomo giunga alla salvezza, opera del Figlio redentore. E’ questo che Gesù intende con quelle parole:"... come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.."; infatti, come Mosè è figura del Cristo, il serpente, che l’antico patriarca innalza del deserto, è chiaro simbolo della salvezza, che verrà all’uomo, dal Figlio di Dio, quando sarà innalzato sulla croce, in espiazione del peccato. E’ Cristo, infatti, l’ unica via di salvezza per l’uomo, Lui è la vera libertà e l’unico mediatore, che può condurre alla pienezza della vita; lui, il segno inconfondibile dell’amore del Padre, come ci ricorda passo del Vangelo, che, così recita:" Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna." E’ questo il messaggio che viene dalla Croce: un dono di misericordia all’uomo peccatore, il segno drammatico del perdono, che Dio ha concesso, e concede ad ogni uomo, che si volga con fede al Figlio Gesù. Di perdono, come segno dell’infinito amore di Dio, parla il passo del vangelo di Matteo, sul quale si sarebbe dovuta fermare la nostra riflessione, in questa ventiquattresima domenica; passo che è costituito in gran parte dal racconto della parabola, che potremmo intitolare: i due debitori.( Mt. 18, 21 35). La parabola che Cristo racconta ai suoi discepoli, in risposta alla domanda di Pietro sulla misura del perdono, è una parabola dai toni volutamente esagerati, modo, questo, per dare il senso dell’enorme debito che, col peccato, l’uomo ha contratto con Dio, quel sovrano creditore di una cifra incalcolabile, nei confronti di un servo, del quale, tuttavia, accoglie la supplica, per rimandarlo libero. Il peccato, oggi spesso banalizzato, è, realmente un debito nei confronti di Dio, un debito al suo amore, e che l’uomo, da sé, non può saldare. Anche se la mentalità corrente, rifiuta il concetto di peccato, esso tuttavia, esiste, esiste da quando l’uomo, per la prima volta, si pose in alternativa al suo Creatore, violandone le leggi e scavando, così, un vuoto incolmabile di solitudine, di angoscia, di paura e di morte. Da allora, l’uomo cammina nella vita, come in un deserto, con la nostalgia di Dio nel cuore, col peso del suo debito, con l’angoscia della solitudine, e supplica, e attende quel perdono, che chiamerà sulla terra lo stesso Figlio, divenuto uomo in Gesù di Nazareth, il Cristo, che, oggi, contempliamo, nel suo totale abbassamento, che lo rende simile ad ogni altro uomo, e solidale con lui, nonostante il peccato, anzi, proprio perché schiavo di esso. E’ quel che Paolo, mirabilmente, ci dice nell’ inno Cristologico della lettera ai Filippesi, che così recita: "Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l' ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché, nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi, nei cieli e sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre." ( Fil.2,6-11) L’esaltazione di Cristo, è il suo innalzamento sulla croce, il patibolo infame dal quale è scesa sul mondo la pace, e la rinnovata comunione con Dio, allorché il Figlio, morente, disse quelle parole che sconvolsero il mondo e la Storia:" Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno."(Lc. 23, 34) "Dio non ha mandato il Figlio nel mondo, son le parole di Gesù a Nicodemo, per giudicare il mondo, ma, perché il mondo si salvi per mezzo di lui." Questo ci ricorda, oggi, la solenne liturgia che celebra la Croce di Cristo, realizzazione di quella promessa fatta dal Salvatore, nei giorni che precedettero la sua passione, e disse ai discepoli: " Quando io sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me.". (Gv.12,32); in quel momento estremo della vita terrena del Figlio di Dio, iniziava la nostra nuova vita in Lui, quella, che possiamo, anche, chiamare: la nostra resurrezione. E’ per questa ragione che la Chiesa celebra la Croce di Cristo, che la liturgia canta con queste parole: "O croce, unica speranza, sorgente di vita immortale, accresci ai fedeli la grazia, ottieni alle genti la pace." Sr Maria Giuseppina Pisano o.p. mrita.pisano@virgilio.it |