Omelia (14-09-2008) |
don Marco Pratesi |
Il serpente di fuoco Nel suo lungo cammino Israele si trova ancora in difficoltà. Di fronte alle fatiche e ai disagi viene a prodursi una situazione di tedio, scoraggiamento, insofferenza, demoralizzazione. La lamentela degli israeliti palesa un orizzonte totalmente buio: siamo in cammino verso la morte, verso il nulla. Essa inoltre non accusa esplicitamente Dio (è ben rischioso!), ma solo Mosè, quasi si trattasse di un cammino voluto soltanto da lui. Le coordinate sono del tutto smarrite, e il disorientamente assume l'aspetto della nausea e dell'accidia. All'accidia segue in modo provvidenziale uno scossone, perché adesso, con l'arrivo dei serpenti, il male si fa aperto, incalzante, minaccioso. Anzi, insuperabile: qui si deve proprio sperare soltanto nella buona sorte, perché contro i serpenti non c'è nulla da fare, chi è morso muore senza scampo. Il testo usa una espressione strana ma molto suggestiva: «serpenti di fuoco» (v. 6, versione CEI: «brucianti»). Tale modo di esprimersi si riferisce al loro colore rosso, oppure al dolore bruciante che il loro morso infligge? A questo punto c'è la presa di coscienza: accidia e lamentela sono finalmente percepite come un comportamento negativo, che provoca morte. Ecco la richiesta dell'intercessione di Mosè, quindi nuovamente l'accoglienza del suo ruolo nel piano di Dio e di ciò che egli in esso rappresenta, cioè l'alleanza. La risposta di Dio è un segno. Nell'antico oriente il serpente era anche simbolo di vita e guarigione, e assai probabilmente si risente qui tale influsso. Chi guarderà al segno sarà salvato. Il segno di vita riproduce in qualche modo la causa di morte, sia per la forma sia per il colore. L'ordine di Dio infatti prescrive a Mosé di fare un serpente «di fuoco» (v. 8, la CEI omette la precisazione) ed è pertanto preferibile pensare che il materiale impiegato sia piuttosto il rame, di colore rosso vivo, con chiaro riferimento al fuoco dei serpenti. La lingua ebraica infatti (come del resto il greco e il latino) non distingue chiaramente tra rame e bronzo (che è quasi tutto rame). La presentazione del segno consente una verifica: quella della fede. La salvezza è offerta, ma è richiesto comunque qualcosa: guardare al segno, il che implica fiducia in Mosè e in Dio. Poiché quel serpente non può avere in sé nessun potere sanante se non quello che Dio stesso gli conferisce, e alzare gli occhi a lui è un atto di fede nella parola data da Dio attraverso Mosè: «chi si volgeva a guardarlo era salvato non da quel che vedeva, ma solo da te, Salvatore di tutti» (Sap 16,7). Lì, in quel serpente rosso, io vedo la causa di morte trasfigurata in causa di vita. C'è una metamorfosi, non un'abolizione; una trasformazione, non una cancellazione. Non posso saltare il male e la morte. Ma se io credo, la morte diventa vita, perché proprio lì io scopro che mi sbaglio, e di grosso, quando entro nell'orizzonte dell'accidia e interpreto l'azione di Dio come un portarmi verso il nulla. Non solo. Mentre i serpenti mortiferi sono molti, il segno vivificante è uno solo: da molte morti a una sola salvezza (cf. Rm 5,15-16). Posso morire da solo, ma non salvarmi da solo. Posso perdermi per le mie strade, ma essere liberato solo in un popolo che crede. Il serpente di rame sarà conservato nel tempio di Gerusalemme finché il pio re Ezechia, per evitare tentazioni idolatriche, lo distruggerà (cf. 2Re 18,4). Oramai il segno innalzato sul mondo per la salvezza di chi crede sarà soltanto Gesù crocifisso e risorto (cf. Gv 3,14-15). I commenti di don Marco sono pubblicati dal Centro Editoriale Dehoniano - EDB nel libro Stabile come il cielo. |