Omelia (27-04-2003) |
padre Gian Franco Scarpitta |
Un cuor solo, un'anima sola La scorsa domenica ci siamo soffermati su alcuni criteri di attendibilità storica della resurrezione di Gesù, considerandoli però secondari rispetto al dato più importante secondo il quale per noi la Resurrazione non potrà mai apportare nulla di nuovo nella nostra vita se ad essa non ci si apre anzitutto in un'ottica di fede e di sottomissione dell'intelletto e della volontà: un conto è credere infatti che "Gesù è risorto", altro è credere nella "risurrezione di Gesù"... Ed ecco che a mostrarci quest'ultima caratteristica è l'esemplarità dei primi discepoli di cui alla prima lettura di oggi: essi erano "un cuor solo e un'anima sola" e la loro vita era caratterizzata dalla condivisione e dall'interazione all'insegna della solidarietà e della "koinonia"(=comunione). Tali erano i frutti della risurrezione del loro Maestro e tale evento era la motivazione fondamentale del loro agire e del loro essere... Guardando a loro noi non possiamo che riconsiderare le nostre attività parrochhiali e le nostre interazioni all'interno delle comunità ecclesiali: è proprio vero che le nostre iniziative, qualunque esse siano, hanno come punto di partenza la nostra adesione individuale e collettiva al Cristo risorto? O sono semplicemente l'esternazione gratuita del nostro zelo e della noastra competenza "tecnica"e, peggio ancora della nostra smania di esibizionismo...? Poiché si da il caso che (ovviamente facendo le dovute eccezioni)in molti casi nelle nostra aggregazioni e comunità ecclesiali ciò che in primo luogo ci interessa è il "fare". Ci si domanda tante volte, quale prerogativa primaria e indispensabile, "che cosa dobbiamo fare" ma ben poco di questo nostro "fare" si riscoprono le motivazioni fontali e fondanti. In altre parole, siamo tentati dall'omettere a questo "fare" il necessario "essere" che lo deve precedere e ancora più dettagliatamente l'entusiasmo dell'azione pastorale ci conduce molte volte ad esaltare noi stessi nella medesima, senza considerare che ogni parola, ogni atto e ogni attività non è altro che il risultato della azione dello Spirito su di noi. E quello che è peggio, sempre tale entusiasmo molte volte conduce a trascurare la dimensione di interiorità e di familiarità con Dio che deve precedere qualunque attività ministeriale. Ma che cosa possiamo mai apportare noi agli altri (parlo anche per me sacerdote) se non abbiamo sperimentato e coltivato noi stessi in prima persona i contenuti del nostro messaggio? E in questo caso specifico, come possiamo pretendere che la nostra testimonianza del Risorto sia efficace se non abbiamo assimilato noi stessi la carica spirituale e di rinnovata costanza che ci proviene da essa? Ma soprattutto: fino a che punto siamo capaci di valorizzarci gli uni gli altri nelle nostre attività parrocchiali, senza invidie o gelosie di sorta ma considerando che ciascuno ha i suoi carismi, e che questi vanno sempre messi a disposizione degli altri? Fino a che punto riusciamo ad trascurare il malinteso e (soprattutto9 il pettegolezzo, che rovina i rapporti e accresce il sospetto e la tensione? Che le difficoltà di interazione in qualsiasi gruppo o associazione ecclesiale siano una realtà ordinaria, questo è risaputo. Prova ne sia il fatto che lo stesso Luca, sempre immediatamente dopo il passo che abbiamo appena citato dagli Atti degli Apostoli, non trascura di soffermarsi sui sotterfugi di Anania e Saffira che trattengono per se il ricavato della vendita di una campo (At 5, 1-6); ed è anche risaputo che in seno alla Chiesa vi possano essere smarrimenti di carattere spirituale se è vero che Paolo si rivolgerà in toni di rimprovero agli "Stolti Galati" che si lasciano corrompere da false dottrine, mentre proprio a loro era stato dato di ricevere con assoluta chiarezzza il fenomeno della croce (Gal 1, 6-10; 3,1); e ancora, non da escludersi che vi siano anche crisi al livello morale, se è vero che lo stesso Paolo rimprovera le impudicizie inaudite dei Corinzi (1 Cor 5,19)ma è propio il nostro appartenere a Cristo e il tornare a lui con lo spirito di continua conversione che deve spronarci a superare questi e altri difetti o problemi nella maturità di giudizio e nello spirito della correzione fraterna ben differente dalla critica o dal pregiudizio, affinche il gruppo (qualsiasi gruppo)sia un luogo di comunione e di coazione! Come sarebbe bello se tutte le Comunità e le Parrocchie fossero realmente focolai di vita dove "tutti trovano tutto"! se togliamo il Cristo risorto non rimane più nulla. Soltanto le nostr illusioni e gli inevitabili fallimenti. Chiedo scusa se "porto acqua al mio mulino", ma trovandomi adesso in una missione con il mio Ordine (I pp. Minimi)rilevo che sulle orme di Cristo vi sia l'esempio di conversione continua di San Francesco di Paola, fondatore del medesimo, il quale faceva precedere il colloquio interiore con Dio ad ogni suo gesto, opera e attività perché Cristo fosse presente in ogni istante del suo agire; e per recare (e di fatto recava) sulle proprie labbra continuamente il motto: "carità" (Facciamo questo, per carità; andiamo, per carità...) Come lui, così anche noi tutti dovremmo comprendere insomma che la resurrezione di Gesù ci vien data come "dono" da accettarsi nella gioia della fede e per questo da rendersi trasparente nell'immediatezza, tale e quale esso era per gli apoistoli che videro entrare il Signore nel cenacolo nonostante le porte fossero chiuse: "Mostrò loro le mani e il costato... Sono proprio io! Come il Padre ha mandato me, io mando voi". Non si sa che cosa avesse provato Tommaso nel porre il proprio dito sul costato di Gesù; ma certamente deve aver avuto riprovazione verso se stesso, una volta accortosi della meschinità della propria incredulità iniziale... Ma la colpa era (ed è) piuttosto di una determinata concezione sofista per la quale bisognava per forza "toccare per credere"... |