Omelia (27-04-2003) |
mons. Antonio Riboldi |
La speranza, necessità di vita La parola di Dio oggi inizia descrivendo la vita della prima comunità che si era creata attorno agli apostoli a Gerusalemme, dopo la Pentecoste. Una comunità che oramai era entrata nella certezza che Gesù Risorto era la vita da scegliere: una vita in cui tutte le speranze dell'uomo, anche quelle buone, ma che non avevano radici, perché questa vita è una dura roccia che non accetta radici, avevano lasciato il posto alla sola radice della speranza, Cristo risorto. "La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuor solo ed un'anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della resurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande stima. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l'importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli: e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno" (At. 4,32-35) In altre parole vivevano talmente la vita come attesa della resurrezione che giudicavano tutto ciò che era della terra, come beni che non potevano dare quella speranza, che è la porta della gioia infinita del Cielo, che attendevano si aprisse nel momento giusto, per entrare a vivere la vera vita con Cristo. E la loro felicità si tramutava in quelle "beatitudini" di Cristo che sono non solo la vera libertà da tutto per essere liberi per Dio e per la carità verso i fratelli, ma diventavano testimoni della vera speranza e tutti rimanevano stupiti da questa loro gioia. Sono la speranza e la gioia che dovrebbero appartenere a tutti noi che siamo, con il Battesimo, i risorti. Una speranza difficile, poco diffusa, ma fondamento di una esistenza che sia un rendere conto che la vita è amore. Ci si domanda giustamente perché, se questa speranza dovrebbe essere la nostra vera ricchezza interiore che mette il sorriso negli occhi, in troppi gli occhi sono velati dal turbamento, come se Cristo non fosse risorto. Ci siamo fermati forse, con il cuore incredulo sotto la croce del venerdì santo, sul Calvario, forse ritenendo che il mondo sia un grande cimitero di croci, come affermava il S. Padre il venerdì santo: croci su cui sono appesi senza colpa i poveri, le vittime delle guerre, le tante sofferenze che sono il vero volto della terra in cui siamo. Ci domandiamo con angoscia come mai l'uomo, che pure è uscito dalle dolci mani del Padre, abbia il cuore spento alla bontà, da godere, come fecero tanti, nel condannare il Giusto e nel provare gioia diabolica nel vedere Gesù appeso sulla croce...come se vedere la sofferenza, anche di un condannato fosse motivo di gioia per l'uomo. Un uomo che conserva ancora parte della sua grandezza e dignità, ripeto, impronte di Dio, non può mai provare gioia nel fare soffrire o nel vedere soffrire. Questo appartiene solo a Satana. E' vero, a Pasqua tanti di noi hanno accolto la gioia della resurrezione e contemplato questo aprirsi del Cielo su di noi per il grande amore di Dio e abbiamo conosciuta la speranza anche per questo momento difficile: un momento che può diventare ancora più difficile se gli uomini non si convertono all'amore, alla giustizia, al perdono, alla pace. Tanti, troppi forse, hanno visto la Pasqua come un momento di trionfo del consumismo che ha la capacità di spegnere le tracce di Dio e quindi della speranza. "Cosa vogliamo attendere di nuovo da questo mondo? C'è ancora posto per sperare in qualcosa di nuovo, in un futuro senza questo vomito di violenze e guerre? Cosa sperare da un futuro che sembra nelle mani di un pazzo che trova gusto a rompere tutto, compresa l'umanità?", domande sconsolate che mi poneva un uomo, scrollando il capo. "Qui non c'è posto né per la gioia, né per la disperazione.Qui regna l'abisso del nulla...Ed il peggio che questo abisso sia il luogo dove abbiamo posto la nostra dimora". Parole dure che non sono le parole della Pasqua di Cristo, che proprio questo abisso ha voluto colmare con la sua resurrezione...sempre che noi vogliamo uscirne e lo possiamo fare. Eppure c'è chi, come tutti i santi, ossia quanti credono fermamente nella resurrezione, affidarsi al Cristo risorto come sola speranza. Mons. Tonino Bello, mio caro amico che tutti credo conoscete, negli ultimi giorni del Calvario della sua malattia, così ha voluto scrivere ai suoi fedeli augurando la Pasqua: "Vi benedico da un altare scomodo, ma carico di grazia. Vi benedico da un altare coperto di penombre, ma carico di luce. Vi benedico da un altare circondato da silenzi, ma risuonante di voci. Sono le grazie, le luci, le voci dei mondi, dei cieli e delle terre nuove che, con la Resurrezione, irrompono nel nostro vecchio mondo e lo chiamano a tornare giovane". E' un canto alla speranza che supera le barriere della disperazione o dello scoraggiamento che prende tanti oggi e diventa il grido della sentinella che ci avverte che è giunto "il giorno del Signore", il giorno di Alleluja. Ed aggiungeva Tonino Bello: "Nell'agonia dei nomi – sono irrimediabilmente logorati termini come progresso, ideali, destra, sinistra, civiltà, giustizia, libertà – solamente shalom, che vuol dire pace, non ha mai cambiato significato. La pace non è un ricavato dai nostri pozzi. E' un'acqua che scende dal cielo, ma siamo noi che dobbiamo canalizzarla perché giunga a ristorare la terra" (Le mie notti insonni) Gesù conosce molto bene le nostre paure, le nostre incertezze. Si era fatto compagno di vita, nella sua missione di redenzione, di dodici che Lui stesso aveva scelto. Uno lo tradì e lo vendette. Gli atri per paura Lo abbandonarono nel Getsemani, quando si fece arrestare senza resistenza, andando incontro alla morte come al momento sublime e difficile del suo dare la vita perché noi rientrassimo in possesso della vita eterna, figli del Padre e non più estranei. Uno solo lo seguì fin sotto la croce, Giovanni, l'apostolo che Egli tanto amava e a lui affidò Sua Mamma, perché noi tutti avessimo come Mamma, Sua Mamma. Già dalla croce ci considerava fratelli della stessa famiglia, quella di Dio e di Maria. Che dono! Deve dalla croce avere vissuto il dolore della debolezza dei Suoi che si erano lasciati prendere dalla paura di fronte alla prova. Aveva forse temuto per loro...per noi che abbiamo la stessa sorte come cristiani. Ma non li lascia perdere. Dovranno essere i testimoni della sua resurrezione, ossia di una vita nuova con Lui...sempre, nonostante le nostre paure o debolezze. E subito dopo essere risorto li va a trovare. "Pace a voi – così li saluta– come il Padre ha mandato me, così io mando voi" E alita su di loro, consegnando le chiavi del Regno che ora sono saldamente nelle mani della Chiesa: chiavi che aprono il cielo per noi...se ci affidiamo a quelle chiavi. Ma a quell'appuntamento mancava Tommaso, che urla la sua incredulità. "Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò". E' di una durezza che non lascia spazio neppure al dubbio, quella di Tommaso. Somiglia tanto a quella che abbiamo noi a volte. E Gesù dopo otto giorni tornò e mostra a Tommaso le prove della sua crocifissione e resurrezione. E' stupenda la confessione di Tommaso che, confuso, non sa dire altro che "Mio Signore e mio Dio!": Cui Gesù replica: "Perché mi hai veduto, hai creduto: ma beati quelli che pur non avendo visto crederanno!" (Gv. 20,10-31). E noi siamo tra questi "beati". Se così è, è tempo che anche noi con umiltà poniamo ai piedi di Gesù le nostre paure, i nostri dubbi, affidandoci totalmente alla sua parola. E così divenendo, come i primi cristiani di Gerusalemme, profeti e testimoni di speranza. "Abbiamo visto il Signore!" dovremmo essere capaci di dire. Sul volto dei santi, nei loro occhi brillava sempre questa gioia che invitava alla speranza, come se davvero avessero visto il Signore. E chi può negare questa testimonianza dei santi? Basta averne incontrato qualcuno anche tra di noi, santi feriali. Incontrarli è davvero avere visto il Signore. |