Omelia (02-11-2008) |
Suor Giuseppina Pisano o.p. |
Commento Matteo 25,31-46 Una liturgia, quella di oggi, carica di speranza, e che, senza nulla togliere alla drammaticità della morte, ci parla di pienezza di vita, a partire dal passo del profeta Isaia, per concludersi col Vangelo, che è un invito a preparare, già nel tempo, l'ingresso nella vita eterna: l'indistruttibile, felice comunione con Dio, in Cristo. La commemorazione solenne di tutti i defunti è una festa antica, nata nel lontano medioevo in ambiente monastico, là, dove il ricordo di chi ci ha preceduto è tenuto vivo, ogni giorno, con la preghiera di suffragio, che, in alcuni periodi si fa più intensa e prolungata. Questa di oggi, è anche una giornata di preghiera molto sentita da molti, che la solennizzano, in modo particolare, con la visita ai cimiteri, quei giardini che accolgono il dolore e la speranza di tutti: speranza di una vita oltre il silenzio di quelle tombe, che conservano la memoria di chi, un giorno, è stato tra noi, ed ora è altrove, e noi crediamo, appunto, con Dio nella pienezza della gioia, liberi, ormai, da ogni dolore e paura. Già nel passo del profeta Isaia, possiamo cogliere il senso profondo di quella che sarà la speranza portataci, nella pienezza dei tempi, dal Figlio di Dio, il Cristo Redentore. "Preparerà il Signore degli eserciti, per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. "; così recita il testo del Profeta, introducendo accanto al simbolo del monte, che richiama le altezze cui Dio ci chiama, anche quello del banchetto, che evoca gioia condivisa e comunione, come troveremo poi nelle parabole di Gesù, attraverso le quali, ci vien rivelato l'amore del Padre ricco di misericordia, che chiama a sé tutti gli uomini (Mt. 22), anche i più lontani e distratti. Il monte, di cui Isaia parla, è il segno altissimo della visione di Dio, che darà piena felicità, al termine del lungo travaglio della vita, ad ogni uomo che desideri incontrarlo: " Dio, continua il Profeta, strapperà, su questo monte, il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre, che copriva tutte le genti. Eliminerà la morte per sempre; il Signore, Dio asciugherà le lacrime su ogni volto...". E' la speranza più bella, l'unica consolazione, che aiuti a superare il freddo silenzio della morte, la separazione inesorabile dalle persone più care, che non dobbiamo ricordare nella loro tragica immobilità, ma vive, in Dio, e circondante dal suo amore. Ed è, in vista di una tale speranza, che il Salmista ci esorta a pregare con queste parole: " Ricordati, Signore, del tuo amore, della tua fedeltà, che è da sempre. Ricordati di me nella tua misericordia, per la tua bontà, Signore. Allevia le angosce del mio cuore, liberami dagli affanni. perdona tutti i miei peccati. Proteggimi, dammi salvezza; perché in te ho sperato." (sl. 24) E', dunque, la speranza l'unico sostegno nel tormentato cammino della vita, la luce che dà senso anche all'esistenza più difficile ed amara, che dà senso e respiro, non solo al singolo, ma all'intera storia umana, pur se essa attraversa periodi di buio, e le forze del male sembrano prevalere con violenza inesorabile; neppure in questo caso la Storia è, di fatto, abbandonata al caos della irrazionalità, che sembra solo distruggere e seminare dolore, perché, sempre, misteriosamente, ma realmente essa procede, attratta dal suo fine, che è l'amore sapiente di Dio, il quale, pazientemente attende ed opera salvezza, anche quando i nostri occhi non vedono e la mente stenta a comprendere. Tutto il travaglio della Storia, col suo carico di dolore e di angoscia ha una sua logica profonda che, giustamente, Paolo assomiglia ad un parto cui tutta la creazione partecipa, animata dalla speranza imbattibile della definitiva liberazione per i meriti di Cristo il Figlio di Dio Redentore: " La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; scrive l'Apostolo, essa, infatti, è stata sottomessa alla caducità, non per suo volere, ma per volere di colui che l' ha sottomessa, e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene, infatti, che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma, anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente, aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo". L'attesa della liberazione definitiva e del godimento di ciò che, " occhio non vide, né orecchio udì, né mai è entrato in cuore d'uomo", come scrive, ancora, Paolo ( I Cor.2,9), non può, tuttavia, essere inerte e inoperosa, e il passo del vangelo di oggi lo ricorda a tutti, anche, a quanti ancora non credono esplicitamente in Cristo, ma, tuttavia, vivono una vita moralmente ed eticamente buona, operando il bene in favore dei più deboli e poveri. " Venite, benedetti del Padre mio, dirà il Signore, quando verrà come giudice della Storia, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo." E benedetti, sono quanti si sono piegati sul bisogno, fisico o morale, del prossimo, chiunque esso sia, e a qualunque cultura, fede, o popolo appartenga, saziando la fame di chi è privo del necessario nutrimento, o la sete, di chi è privo di risorse d'acqua, vestendo il povero, o consolando chi soffre, nella malattia o nella vergogna del carcere. Ed è bello leggere lo stupore di quei " benedetti", che non si sono accorti, nella loro semplicità e generosità, di aver incontrato, negli emarginati della vita, Cristo Gesù, il quale non disdegna di identificarsi anche nel delinquente, che sconta la sua pena:" ero carcerato, e siete venuti a visitarmi", afferma il Signore. E lo stupore, di cui il Vangelo parla, dà nuovo slancio alla certezza, che là, dove opera l'amore, è presente il Cristo Redentore, che si rivelerà, forse, solo alla fine, ma, sempre, trasformerà il freddo della morte nello splendore della vita eterna. Un' autentica festa, dunque, questa della Commemorazione di tutti i defunti, che ci conduce alla contemplazione del Mistero stesso della vita, che è, sì, attraversata dal dolore e dall'angoscia della morte fisica, ma che, proprio attraverso questa esperienza drammatica, ci assimila al Figlio di Dio " fatto obbediente fino alla morte", la quale non è la realtà ultima, ma solo il penultimo traguardo dell'esistenza umana, destinata a vivere in eterno nella comunione di quell'Amore che è Dio stesso.(I Gv. 4,16) L'amore, principio e fine dell'esistenza è, dunque, la scelta fondamentale che l'uomo è chiamato a compiere, per esser " benedetto" per sempre; ed è scelta tra la vita e la morte, scelta che si compie nel tempo, con intelligenza e libertà, scelta, che ci qualifica, e che determina il nostro destino: di felicità o disperazione eterna. Sr Maria Giuseppina Pisano o.p. mrita.pisano@virgilio.it |