Omelia (27-04-2003) |
padre Ermes Ronchi |
Noi, dubbiosi come Tommaso «Se non vedo, se non tocco, se non metto la mano, non crederò». Povero, caro Tommaso, diventato addirittura proverbiale! Vuole delle garanzie, ed ha ragione, perché se Gesù è vivo tutta la sua vita ne sarà sconvolta. E Gesù si avvicina alla sua e nostra lentezza a credere, con pochi verbi, i più semplici e concreti: guarda, metti, tocca. C'è un foro nelle sue mani, dove il dito di Tommaso può entrare. C'è un colpo di lancia dove tutta la mano può entrare. E nella mano di Tommaso ci sono tutte le nostre mani, di noi che abbiamo creduto senza aver toccato, ma perché altri hanno toccato. Gesù ripete ad ogni credente: guarda, stendi la mano, tocca. Guarda dentro, fino alla vertigine, in quei fori. Ritorna alla croce, non stancarti di ascoltare la passione di Dio, di guardare le piaghe che guariscono. L'amore ha scritto il suo racconto sul corpo di Gesù con l'alfabeto delle ferite, ormai indelebili come l'amore. Non è un fantasma, Gesù. La sua pasqua ferita non è nata dall'affetto degli apostoli, incapaci di accettarne la morte. Più grande fatica costò arrendersi alla risurrezione. La loro lentezza a credere, il lungo impaurito dubitare mi consolano. Alla fine Tommaso si arrende, ma alla pace, non al toccare. Per tre volte Gesù dice: pace a voi - non "sia", ma "è" pace, al presente: oramai siete in pace con Dio, con gli uomini e pertanto con voi stessi; basta al dominio della paura e del male su di voi; - a questa esperienza anche noi ci consegniamo. Beati quelli che senza aver visto crederanno. Beatitudine che finalmente sento mia. Le altre sono troppo difficili, cose per pochi coraggiosi. Questa mi consola: io credo e non ho visto. E Gesù mi dice beato. E beato è chi, come me, fa fatica, chi cerca a tentoni, chi non vede ancora. Felicità, dice Gesù, per quanti credono. Parola che vale un tesoro. Per chi crede la vita non diventa più facile o riuscita, non più comoda o sicura, ma più piena e appassionata, ferita e vibrante, ferita e luminosa, piagata e guaritrice. Dall'incredulità all'estasi: «Mio Signore e mio Dio», con quel piccolo aggettivo possessivo che cambia tutto, che viene dal Cantico dei Cantici, che è risuonato nel giardino sulla bocca di Maria. Questo "mio" che non indica possesso, ma l'essere posseduti, e dice adesione, appartenenza, scambio di vita. E la vitalità di Dio mi è compagna dei giorni, l'avverto, è energia che sale, dice e ridice, non tace mai, dà appuntamenti, si dilata dentro, mette gemme di luce, mi offre due mani piagate perché ci riposi e riprenda fiato e coraggio. E dico a me stesso, io appartengo ad un Dio vivo, non ad un Dio compianto. Questa parola mi fa dolce e fortissima compagnia: io appartengo a un Dio vivo. |