Omelia (02-11-2008)
Agenzia SIR


Sono parole di dura condanna quelle che il Giudice rivolge ai dannati: "Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli". Parlano di fuoco che distrugge. È il fuoco dell'Inferno. Per la verità l'immagine del fuoco nella Bibbia serve a indicare realtà assai diverse tra loro: l'inferno appunto, il giudizio divino, il purgatorio, ma anche il Regno di Dio, Dio stesso. Il fuoco fa parte della comune esperienza umana: è vivo, riscalda e illumina, purifica e distrugge. Per questo in molte religioni è simbolo della presenza di Dio. Anche nell'Antico Testamento si dice "Dio è fuoco divorante". E Dio si manifesta nel Roveto ardente, nella Colonna di fuoco, nei bagliori del Sinai, nella gloria fiammeggiante del suo trono. Nel Nuovo Testamento il fuoco esprime il Regno di Dio, la sua nuova presenza salvifica, introdotta da Gesù nella storia. "Sono venuto a portare il fuoco sulla terra e come vorrei che fosse già acceso!". Esprime il dono dello Spirito Santo a Pentecoste, con il segno delle lingue di fuoco. Esprime l'incontro definitivo con Dio e con Cristo oltre la vita presente e oltre la storia.

Lo stesso Dio è fuoco che illumina e fa risplendere i santi, che purifica i giusti dai loro difetti, che è motivo di tormento per i peccatori. Lo stesso Dio è paradiso, è purgatorio, è inferno. Lo stesso Dio è giudizio, è risurrezione. Dio, nel suo amore, è giudizio, perché in rapporto a lui si definisce la nostra identità. È purificazione, perché egli completa la nostra conversione e ci rende degni di sé. È risurrezione, perché ci fa vivere secondo tutte le dimensioni del nostro essere uomini. È inferno, perché chi lo rifiuta definitivamente rimane lacerato in se stesso. È paradiso, perché chi lo accoglie totalmente trova la pienezza della vita e della gioia.

Dio è anche purgatorio (purificazione, non luogo) per i giusti che al termine della vita terrena non sono in piena sintonia con lui. Adesso noi sottovalutiamo la gravità del peccato, ci adagiamo nella mediocrità. Debole è il nostro pentimento e la nostra conversione. Guardiamo i Santi. Loro, a differenza nostra, soffrono terribilmente anche per colpe o mancanze che a noi sembrano del tutto trascurabili. Il Santo Curato d'Ars ha avuto una speciale illuminazione sulla bruttezza del peccato: "Ho domandato a Dio di conoscere la mia miseria. L'ho conosciuta e sono stato così sopraffatto che ho pregato Dio di diminuire la pena che provavo. Mi sembrava di non farcela a sopportarla. Non chiedete a Dio la conoscenza completa della vostra miseria. Io l'ho domandata una volta e l'ho ottenuta. Sono stato così spaventato nel conoscere la mia miseria che ho implorato immediatamente la grazia di dimenticarla". Questa e altre esperienze mistiche dei Santi ci aiutano a capire la sofferenza del Purgatorio. È sofferenza che nasce dalla conoscenza della propria difformità rispetto alla santità di Dio. Questo dolore nasce dall'amore per Dio. È totalmente diverso dalla sofferenza dell'inferno che invece nasce dal rifiuto e dall'odio verso Dio e verso tutte le sue creature.

Nel giorno della commemorazione dei defunti, il Vangelo ci fa anche intuire l'importanza dei suffragi: è la nostra solidarietà attraverso la preghiera, le opere di carità, la messa. Certamente il Vangelo di oggi parla delle opere di misericordia corporale (dar da mangiare, da bere, da vestire, da curare) ma anche di quelle spirituali e, tra queste, la preghiera per i defunti, sorretta dalla certezza della comunione dei Santi. Il Santo Curato d'Ars praticò molto la carità verso i poveri, ma colpisce soprattutto il fatto che trascorse più di 20 anni a confessare fino a 15-17 ore al giorno, per aiutare i peccatori a convertirsi e salvarsi. Nella misura in cui saremo consapevoli delle esigenze di purificazione dei defunti, saremo anche generosi nell'intercessione e nel suffragio per loro. Molte sono le facce della fame dell'uomo. La più grave è la fame di Dio. Spezzare il pane con l'affamato significa anche comunicare il Vangelo che salva. La carità è Vangelo. Ma il Vangelo – testimoniato e annunciato – è la forma più alta di carità.

Da sempre la Chiesa ha coltivato con grande pietà la memoria dei defunti, offrendo per loro i suoi suffragi. Fa parte del Credo cristiano la fede nella comunione dei Santi, ossia il rapporto – spirituale, ma non per questo meno vero – fra quanti sono ancora pellegrini sulla terra, coloro che, già morti, si purificano dinanzi al Signore e quanti già godono della gloria del paradiso. Questo il senso autentico del nostro recarci nei cimiteri e dell'offerta di fiori, lumi e preghiere per i defunti.
Dinanzi all'ambiguità dell'esistenza, più ancora che il dolore e la miseria, è soprattutto il pensiero e l'esperienza della morte a minacciare e a rendere vano ogni aspetto positivo della vita. L'uomo sa di morire. Anche Gesù non si è sottratto a questa consapevolezza: lui stesso è morto! Ma come nella sua vita, nelle sue parole e nei suoi gesti, anche nella morte di Gesù non vi è altro che l'amore di Dio. La Beata Angela da Foligno sentì dirsi da Dio queste parole: "Guarda se trovi in me altro che amore". Solo l'amore spiega la morte, cambiandone il volto. Questo è anche il senso profondo del Vangelo di oggi perché mostra cosa bisogna fare "ora" (da vivi) in vista del "momento finale" (la morte e il giudizio finale). L'essere collocati "alla destra" o "alla sinistra" del Re, non è roba da poco. Per i due gruppi, la sentenza è opposta e riguarda la benedizione o la maledizione, l'avvicinarsi o l'allontanarsi da Dio e dalla salvezza.

Il dato sorprendente del Vangelo è che il Signore mette la salvezza o la perdizione nelle nostre mani; lega il suo giudizio a come noi stessi giudichiamo gli altri. In realtà, sembra dirci Gesù, siamo noi che lo giudichiamo, durante la vita, decidendo di accoglierlo o di ripudiarlo. Giovanni, l'apostolo prediletto, condenserà tutto in una parola: alla fine della vita saremo giudicati sull'amore. Mai parola più consolatrice e rasserenante; ma allo stesso tempo impegnativa e radicale. Ogni prossimo è sempre l'Altro. Così, il primo comandamento ("Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze"), è uguale al secondo ("Amerai il prossimo tuo come te stesso").

Commento a cura di don Angelo Sceppacerca