Omelia (02-11-2008) |
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La morte della vita del credente Una grande distanza separa l'atmosfera raccolta, colma di speranza e di fede, dei cimiteri delle catacombe, e il silenzio imbarazzato della nostra epoca a proposito della morte. La nostra società secolarizzata è passata lentamente, progressivamente, dalla familiarità con la morte, caratteristica dell'antichità e del medioevo, alla morte nascosta e mascherata, o addirittura rifiutata e rimossa: fuggire la morte è la tentazione del mondo occidentale di oggi. Eppure la morte di un credente ci insegna molte cose sulla vita. Non che egli non sperimenti l'angoscia, l'apparente assurdità, la solitudine estrema che accompagnano l'ultima lotta. Non esiste una "bella morte": si tratta sempre di una prova, conseguenza del peccato. Non fa eccezione neppure la morte di Gesù: con una lucidità estrema, che spiega l'agonia del Getsemani, il Cristo ha voluto portare il peso del peccato del mondo. Ma poiché non ne condivideva la responsabilità, l'inferno non ha potuto trattenerlo. "Come un tuffatore, si è immerso nell'abisso dei morti per cercare la propria immagine che vi era sprofondata e ricondurre Adamo all'ovile" (s. Efrem). Sterile compagna del nostro peccato, la morte rivela così una possibile fecondità. Nella misura in cui il cristiano, sull'esempio di Gesù, prepara, accoglie e vive la propria morte come un'offerta d'amore, si unisce al Cristo nella sua volontà di espiazione: proteso verso la totalità del mistero pasquale, spera di arrivare ad essere col Signore per sempre. Questo non significa che non griderà la propria desolazione prima di spegnersi; anche il neonato entra nella vita con un pianto d'angoscia. Ma Dio restituisce spesso a chi ha varcato le soglie della morte un volto di bambino addormentato. Anche questo è un segno. |