Omelia (09-11-2008) |
padre Raniero Cantalamessa |
Frequentare la Chiesa non è una pratica esteriore Quest'anno, al posto della XXXII Domenica del Tempo ordinario, si celebra la festa della dedicazione della chiesa-madre di Roma, la basilica Lateranense, dedicata inizialmente al Salvatore e in seguito a san Giovanni Battista. Che cosa rappresenta per la liturgia e per la spiritualità cristiana la dedicazione di una chiesa e l'esistenza stessa della chiesa, intesa come luogo di culto? Dobbiamo partire da queste parole del Vangelo: "È venuto il momento, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità, perché il Padre cerca tali adoratori". Gesù insegna che il tempio di Dio è, primariamente, il cuore dell'uomo che ha accolto la sua parola. Parlando di sé e del Padre dice: "Noi verremo in lui e prenderemo dimora presso di lui" (Gv 14, 23) e Paolo scrive ai cristiani: "Non sapete che voi siete il tempio di Dio?" (1 Cor 3, 16). Tempio nuovo di Dio è, dunque, il credente. Ma luogo della presenza di Dio e di Cristo è anche là, "dove due o più sono riuniti nel suo nome" (Mt 18, 20). Il concilio Vaticano II arriva a chiamare la famiglia cristiana una "chiesa domestica" (LG, 11), cioè un piccolo tempio di Dio, proprio perché, grazie al sacramento del matrimonio, essa è, per eccellenza, il luogo in cui "due o più" sono riuniti nel suo nome. A che titolo, allora, noi cristiani diamo tanta importanza alla chiesa, se ognuno di noi può adorare il Padre in spirito e verità nel proprio cuore, o nella sua casa? Perché questo obbligo di recarci in chiesa ogni domenica? La risposta è che Gesù Cristo non ci salva separatamente gli uni dagli altri; egli è venuto a formarsi un popolo, una comunità di persone, in comunione con lui e tra di loro. Quello che è la casa, una abitazione propria, per una famiglia, è la chiesa per la famiglia di Dio. Non c'è famiglia, senza una casa. Uno dei film del neorealismo italiano che ancora ricordo è "Il tetto" scritto da Cesare Zavattini e diretto da Vittorio De Sica. Due giovani, poveri e innamorati, si sposano, ma non hanno una casa propria. Alla periferia della Roma del dopoguerra escogitano un sistema per farsene una, lottando contro il tempo e contro la legge (se la costruzione non è arrivata al tetto prima di sera verrà demolita). Quando alla fine completato il tetto, sono sicuri di avere una casa e una intimità propria, si abbracciano felici; sono una famiglia. Ho visto questa storia ripetersi in tanti quartieri di città, paesi e villaggi che non avevano una chiesa propria e hanno dovuto costruirsene una loro. La solidarietà, l'entusiasmo, la gioia di lavorare insieme con il prete per dare alla comunità un luogo di culto e di incontro sono storie ognuna delle quali meriterebbe un film come quello di De Sica... Dobbiamo però evocare anche un fenomeno doloroso: l'abbandono in massa della frequenza alla chiesa e quindi della Messa domenicale. Le statistiche sulla pratica religiosa sono da pianto. Non è detto che chi non va in chiesa abbia sempre perso la fede; no, solo che si sostituisce alla religione istituita da Cristo la cosiddetta religione del "fai da te", in America dicono del "pick and choose", prendi e scegli. Come si fa al supermercato. Fuori metafora, ognuno si fa una sua idea di Dio, della preghiera e si sente tranquillo con essa. Si dimentica, in questo modo, che Dio si è rivelato in Cristo, che Cristo ha predicato un vangelo, ha fondato una ekklesia, cioè una assemblea di chiamati, ha istituito dei sacramenti, come segni e tramiti della sua presenza e della salvezza. Ignorare tutto questo per coltivare una propria immagine di Dio espone al soggettivismo più totale. Non ci si confronta più con nessun altro se non con se stessi. In questo caso, sì, che si verifica quello che diceva il filosofo Feuerbach: Dio si riduce alla proiezione dei propri bisogni e desideri; non è più Dio che crea l'uomo a sua immagine, ma l'uomo che si crea un Dio a sua immagine. Ma è un Dio che non salva! Certo una religiosità fatta solo di pratiche esteriori non serve a nulla; Gesù combatte contro di essa lungo tutto il vangelo. Però non c'è contrasto tra la religione dei segni e dei sacramenti e quella intima, personale; tra il rito e lo spirito. I grandi geni religiosi (pensiamo ad Agostino, Pascal, Kierkegaard, il nostro Manzoni) erano uomini di una interiorità profonda e personalissima e nello stesso tempo erano inseriti in una comunità, frequentavano la loro chiesa, erano "praticanti". Nelle Confessioni (VIII,2) S. Agostino narra come avvenne la conversione dal paganesimo del grande retore e filosofo romano Vittorino. Convinto ormai della verità del cristianesimo, diceva al sacerdote Simpliciano: "Sappi che io ormai sono cristiano". Simpliciano gli rispondeva: "Non ci credo finché non ti vedo nella chiesa di Cristo". Lui di rimando: "Sono dunque le pareti che ci fanno cristiani?" La cosa andò avanti per un po' tra queste schermaglie. Ma un giorno Vittorino lesse nel vangelo la parola di Cristo: "Chi si vergognerà di me in questa generazione anch'io mi vergognerò di lui davanti al Padre mio". Capì che era il rispetto umano, la paura di cosa avrebbero detto i suoi dotti colleghi, a trattenerlo dall'andare in chiesa: si recò da Simpliciano e gli disse: "Andiamo in chiesa, voglio farmi cristiano". Credo che questa storia ha qualcosa da dire anche oggi a più d'una persona di cultura. |