Omelia (25-12-2008) |
Agenzia SIR |
Giovanni, l'Apostolo prediletto, identificato nella iconografia sacra dalla figura dell'aquila, è l'evangelista delle altezze, delle visioni vertiginose. Il prologo del suo Vangelo, che ascoltiamo nella Messa di oggi, ne è un esempio straordinario. Il Prologo contiene – ripetute più volte, perché s'imprimano nella memoria del cristiano – le grandi verità della fede: la preesistenza divina del Verbo, del Figlio di Dio eterno insieme al Padre; l'incarnazione del Verbo e l'adozione a figli di Dio di coloro che credono in lui. Gesù è la grande luce che ha rischiarato le tenebre che avvolgevano il mondo. Tenebre di egoismo, di violenza, di morte, di peccato. Eppure il mondo non l'ha riconosciuto. Solo alcuni hanno accettato la sua luce e l'hanno riconosciuto: questi sono chiamati figli di Dio. Come in un quadro a forti contrasti di luce e ombra, fin dal Prologo, Giovanni pone Gesù come pietra di inciampo, come Colui dinanzi al quale bisogna operare le scelte fondamentali della vita. Non si può rimanere indifferenti, non schierati. Giovanni, fra la luce di Dio e le tenebre del mondo, pone la carne di Gesù, il Figlio di Dio fatto uomo come noi, carne della nostra carne ("nostrae carnis Deus caro factus esset", scriveva Ilario di Poitiers). Se Dio ha assunto la nostra carne, vuol dire che ogni nostra esperienza è stata vissuta, con-divisa da Lui. Ogni povertà, debolezza, solitudine, fame, malattia. Ma anche ogni nostra gioia, consolazione, comunione, salute. Dinanzi al Prologo di Giovanni possiamo sentirci come ai piedi di un massiccio altissimo, o sul bordo di un abisso oceanico. Ma Giovanni rasserena il nostro stupore e timore perché ci mostra che il monte è sceso fino a noi e che l'abisso è stato colmato, perché l'indicibile si è fatto Parola, lo Spirito Carne, Dio si è fatto uomo. Solo così per noi, uomini di carne e ossa, si è aperta la possibilità di una vita salvata, redenta, non più disperata, ma piena di senso. Commento a cura di don Angelo Sceppacerca |