Omelia (29-03-2009) |
Il pane della domenica |
Perché la croce nella storia di Gesù? Se il chicco di grano caduto in terra muore, produce molto frutto Certe volte, per capire il cristianesimo nei suoi aspetti originali e più sconcertanti, è forse utile partire dall’altra "sponda" - fuor di metafora - dalle domande e dalle obiezioni dei non credenti. Per noi cristiani infatti il rischio più grave è quello dell’assuefazione. Ad esempio, siamo abituati a dire o a pensare che Gesù ci abbia salvato con il suo sangue, ma per tanti non cristiani è proprio quella sua morte così violenta a fare scandalo e a costituire una pietra d’inciampo per la fede. Perché il Padre, per salvarci, ha dovuto chiedere al Figlio il sacrificio della vita? E perché il Figlio, per espiare i nostri peccati, ha dovuto morire martire su una croce? Il vangelo di oggi - con la sua delicatissima immagine del chicco di grano, che deve marcire sotto terra per portare vita - ci aiuta a capire il senso della croce nella storia di Gesù. Ma dobbiamo andare in profondità. 1. Chiediamoci: chi ha provocato la morte di Gesù? Dal punto di vista storico, quella morte è stata voluta dalle autorità ebraiche e romane del tempo e dalla folla di Gerusalemme abilmente manipolata; non da tutti gli ebrei di allora; tanto meno da quelli delle generazioni successive. Né si possono vedere dietro la condanna capitale di Gesù soltanto motivazioni puramente politico-sociali, secondo cui egli sarebbe stato condannato come pericoloso per l’ordine pubblico, sovvertitore delle regole sociali e istigatore alla ribellione contro il potere romano. Tra le formule più brevi, ma anche più dense di significato, che la primitiva comunità cristiana usò per esprimere la propria comprensione della morte di Cristo, c’è la seguente: "morì per i nostri peccati". Così scrive Paolo ai cristiani di Corinto verso il 57 d.C., riportando una tradizione più antica: "Vi ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture" (1Cor 15,3). L’espressione indica che Gesù è morto a motivo dei nostri peccati. Quindi se dal punto di vista storico, la morte di Cristo è stata determinata prossimamente dalla gelosia ipocrita delle autorità ebraiche del tempo, dall’ignavia di Pilato, dall’acquiescienza succube della gente presente in quei giorni a Gerusalemme, queste cause umane non spiegano tutto. A un livello più profondo occorre affermare che quanti, in varia misura, l’hanno provocata direttamente, sono soltanto i rappresentanti del peccato radicato in ogni uomo, in ogni popolo e in ogni epoca. Così ribadisce Paolo ai Romani: "Gesù nostro Signore è stato messo a morte per i nostri peccati" (4,5). Per questo non è una finzione devota, ma un’affermazione ispirata da Dio dire che i nostri peccati "crocifiggono di nuovo il Figlio di Dio" (Eb 6,6). Il primo senso dell’espressione "morì per i nostri peccati" è questo: all’origine della morte di Gesù c’è il peccato universale di tutta la famiglia umana. Se tutti siamo peccatori, significa che tutti siamo responsabili del martirio di Gesù. Ora, dire che "Gesù morì per i peccatori" significa anche dire che la sua morte è a vantaggio di noi che siamo peccatori. Alla luce di questa fede, la passione di Gesù non fu solo il "sopportare" il peso del peccato del mondo, prendendolo su di sé, ma il "toglierlo" con la forza dell’amore che si dona e perdona, liberando l’umanità perduta dal carico orrendo e tremendo del male. Andando incontro alla sua morte, Gesù non ha cercato il dolore, ma l’obbedienza al disegno di Dio, che rivela il suo grande amore nella debolezza e nella stoltezza della croce, e non vuole la condanna del mondo, ma la sua salvezza. 2. La croce di Cristo ha due lati: da un lato dice l’odio del mondo contro Gesù; dall’altro dice l’amore di Gesù per il mondo. Da una parte il Crocifisso è vittima della crudeltà più cieca e brutale; dall’altra è protagonista della donazione più generosa, più fedele e coraggiosa. A una violenza totalmente ingiustificata, Gesù ha reagito con una dedizione totalmente incondizionata. "Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo" (1Gv 2,2). Ma si badi bene: Gesù è protagonista d’amore senza mai fare del protagonismo; è vittima di espiazione senza mai cadere nel vittimismo. Leggiamo nella Prima lettera di Pietro: "Cristo soffrì per voi, lasciandovi un esempio, così da seguirne le orme: egli non commise peccato, né fu trovato inganno nella sua bocca; insultato, non restituiva l’insulto; soffrendo, non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia" (2,21-23). La morte di Gesù insegna agli uomini che l’amore vero è quello che accetta di portare il peso della colpa altrui. La croce è il prezzo della fedeltà all’amore di Dio e alla sua misericordia per tutti i peccatori. Rifiutato da noi, Gesù muore per noi: si è comportato con noi come il parente prossimo (ebr. go’el) che si prende personalmente a carico la sorte del fratello. La croce non è un brutto incidente di percorso sulla strada di Gesù; non è un disguido sciagurato, prontamente recuperato dalla risurrezione; non è la sconfitta irreparabile dell’amore: è il suo trionfo, la sua definitiva, indubbia e indiscutibile rivincita. Per questo la croce è la più grande, lieta notizia. E la notizia è questa: Cristo ha vinto la violenza, non reagendo ad essa con una violenza più grande, ma accettando di farsene vittima per metterne a nudo tutta l’ingiustizia e la crudeltà. Ha vinto perché vittima: victor quia victima, afferma s. Agostino (Conf. X,43), e così ha mostrato da che parte sta Dio: non dalla parte del carnefice, ma del perseguitato. Dio sta sempre dalla parte della vittima, come recita testualmente un’antica aggiunta alla Haggadah pasquale ebraica: "Se un giusto perseguita un giusto, Dio è dalla parte del perseguitato. Se un empio perseguita il giusto, Dio è dalla parte del perseguitato. Se un empio perseguita l’empio, Dio è dalla parte del perseguitato". Cristo non solo si è messo dalla parte degli oppressi e dei perseguitati, ma si è fatto lui stesso vittima d’amore per la salvezza dei suoi persecutori. Non ha scaricato i propri peccati sulle spalle degli altri, ma si è caricato dei peccati di tutti sulle proprie spalle: "Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce" (1Pt 2,24). Riascoltiamo il breve brano della 2ª lettura: "Cristo, nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo il Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono" (Eb 5,7-9). 3. Ormai vicini alla Pasqua, la festa della nuova ed eterna alleanza (1ª lettura) dobbiamo riconoscere che noi spesso ci comportiamo all’opposto di Gesù, abituati come siamo a scusare inflessibilmente noi stessi e ad accusare implacabilmente gli altri; a fare vittime - come Caifa', Erode e Pilato hanno fatto con Gesù - anziché farci noi vittime come Gesù, senza vittimismo, per la pace con tutti. Diceva un Padre del deserto: "È per questo che non riusciamo ad avanzare nel nostro cammino, a renderci utili in qualche maniera, perché passiamo il tempo a rimuginare i nostri pensieri gli uni contro gli altri e a tormentarci. Ciascuno si autogiustifica, non obbedisce in nulla ai comandamenti e poi chiede conto dei comandamenti agli altri" (Doroteo di Gaza). Nella celebrazione eucaristica, prima di proclamare la risurrezione del Signore, noi annunciamo la sua morte: facciamo memoria del suo sconfinato amore che lo ha portato a morire, come agnello innocente, a motivo dei nostri peccati, a beneficio di noi peccatori. Cristo, umile chicco di grano buono, ha accettato di marcire per donarci la vita. Ora quel seme si fa pane per la nostra fame di amore e il vino si fa sangue per spegnere la sete di "molti". L’eucaristia non ci fa solo ricordare l’esempio di Gesù, ma ci innesta in lui perché, nell’amore, rimaniamo in lui e, morendo ai nostri egoismi, portiamo molto frutto. Questa è la grazia della Pasqua: non vivere più per noi stessi, ma per Lui che è morto e risorto per noi. Come il seme che dona la vita marcendo. Commento di Mons. Francesco Lambiasi tratto da "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi" Ave, Roma 2008 |