Omelia (18-01-2009)
Il pane della domenica
Maestro, dove abiti?

Videro dove abitava e si fermarono presso di lui

Dove abita Dio? Se è vero che suo Figlio è venuto a piantare la tenda in mezzo a noi, è possibile avere il recapito preciso del suo domicilio? Se è certo che rimane con noi tutti i giorni, si potrebbe avere un appuntamento con lui, magari in giornata? A queste domande solo apparentemente impertinenti, noi crediamo che la risposta ci sia stata già data, e la conosciamo bene, ma per coglierne la portata, forse è opportuno recensire rapidamente alcune risposte diametralmente antitetiche.
Per esempio, quella dell’Innominato dei Promessi Sposi, qualche momento prima di arrendersi all’ultimo assalto della Grazia: "Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?". Oppure la dichiarazione spavalda - ma era autentica? - di Yuri Gagarin, che al rientro dal primo viaggio nello spazio dichiarò di avere provato a vedere se per caso, in qualche angolo della stratosfera ci fosse qualche traccia della presenza di Dio, e invece, niente, neanche l’ombra! O ancora il lamento sofferto e amaro di Eugenio Montale: "Si tratta di arrampicarsi sul sicomoro / per vedere il Signore se mai passi. Ahimé non sono un rampicante e anche restando / in punta di piedi, non l’ho mai visto".

1. Ma il vangelo di oggi non lascia dubbi: il quarto giorno della prima settimana di attività messianica di Gesù, quando era circa l’ora decima, due discepoli - l’uno, con tanto di nome e cognome: Andrea bar Jonas, e l’altro, volutamente anonimo, ma quasi sicuramente Giovanni di Zebedeo - dicono di aver trovato il Messia, l’Agnello di Dio che il discepolo amato assicurerà poi non solo di aver visto con i suoi occhi, e di aver addirittura "palpato" con le sue mani: ed era il Verbo della vita!
Il brano evangelico di oggi ci ripropone la storia di quella "prima volta", raccontata come la sorprendente scoperta del mistero di Gesù. Questi pochi versetti sintetizzano i tratti caratteristici del profilo del discepolo: vero discepolo è colui che accetta la testimonianza, segue, cerca, viene, vede, dimora e si fa a sua volta testimone del Maestro. I verbi essenziali risultano essere: cercare, incontrare, testimoniare.
"Che cercate?": sono le prime parole di Gesù nel quarto vangelo, ed esprimono la domanda cruciale, assolutamente inevitabile per chiunque si metta al suo seguito. Perché c’è seguire e seguire, c’è ricerca e ricerca. C’è chi ricerca sinceramente e umilmente, come Nicodemo, e c’è la ricerca ambigua delle folle, dopo il segno dei pani, che inseguono Gesù per farlo re. C’è anche l’illusione di chi pensa di cercare Cristo, ma in realtà cerca solo se stesso. Per questo il Maestro in persona si premura di fare chiarezza: "Chi cercate?", domanda a quanti sono venuti a catturarlo al Getsemani. E nel giardino di Pasqua chiederà alla Maddalena che vuole abbracciarlo: "Chi cerchi?". "Ciò che si cerca alla fine è una persona, che si può catturare o abbracciare" (Fausti).
Perché la ricerca sia fruttuosa, si richiedono due condizioni indispensabili. Che non si cerchi alla cieca, non ci si muova a vanvera, ma si accetti la testimonianza di chi ha già trovato. Come avviene appunto per i primi due discepoli: hanno appena ascoltato la testimonianza del Battista, l’hanno appena visto puntare l’indice verso l’Agnello di Dio, che si sono messi subito sulle sue tracce. E questa è la seconda condizione: non si può cercare rimanendo immobili, arroccati sulle proprie posizioni, abbarbicati alle proprie abitudini mentali, bloccati da mire e interessi personali; occorre scomodarsi, uscire, incamminarsi. Come hanno fatto i Magi, come farà Zaccheo o il cieco di Gerico, il quale - riferisce Marco (10,52) - "si mise a seguirlo per la strada". Come si racconta appunto in questa pericope dei primi discepoli, per i quali il verbo più utilizzato è proprio il verbo "seguire".

2. Altro verbo immancabile nel discepolo è vedere: "Venite e vedrete". Nel nostro vocabolario vedere si oppone a credere; mentre per Giovanni vedere è proprio il verbo della fede: è un conoscere Gesù e riconoscere in lui il Messia. Non si tratta di un vedere puramente intellettuale, di tipo platonico, e neanche di una contemplazione attraverso la fuga dal terrestre, di tipo gnostico, ma si tratta di un vedere storico-teologico: è vedere ciò che accade, incontrare una persona, e cogliere - dell’avvenimento o della persona - la sostanza interiore, il sostrato profondo. Nel chiedere dove abitava, i discepoli sembrano domandare: Maestro, dicci qual è la tua vita, il tuo stile di comportamento, il mistero della tua persona... E, dopo essersi messi sui suoi passi, i Dodici fanno l’esperienza della compagnia: il loro trattenersi nella casa di Gesù indica la scelta di una comunanza di vita e di destino, una intima, intensissima comunione.
Infine viene l’ora del testimoniare: è il terzo verbo del discepolo, il quale da uno che ha trovato diventa colui che aiuta a trovare, e si fa il passa-parola. Il testimone non si mette in posa, né in mostra; va in missione. Ma ora, senza sviluppare oltre questi pensieri dedicati al ritratto del discepolo, è opportuno ritornare sulla dimensione più profonda del brano, quella Cristologica.

3. S. Agostino, commentando Gv 6,29 ("Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato"), si pone la domanda: "Che significa credere in lui? Credendo, amarlo e diventare suoi amici; credendo, entrare nella sua intimità e incorporarsi alle sue membra: questa è la fede che Dio vuole da noi". Il cristianesimo non può ridursi a credere aliquid (qualcosa), ma è credere aliquem, anzi in aliquem, in qualcuno, in una Persona: Gesù Cristo.
Questo è il cristiano: non semplicemente uno che vive per Cristo, come Cristo; è piuttosto un discepolo che vive di Cristo, con Cristo, in Cristo. "Cristo è tutto per noi", dichiarava s. Ambrogio, e maestro Eckhart affermava: "Se Cristo per me è tutto, allora lui con tutto il resto, e lui solo senza nulla del resto, sono la stessa cosa". Che è come dire: il Signore mi basta; anche se dovessi rimanere senza niente, mi rimarrebbe sempre lui.
È l’esperienza del martirio: i martiri preferiscono farsi staccare le membra, piuttosto che staccarsi da Cristo. Cristo è più mio che le membra del mio corpo (cfr. 2ª lettura). Ma c’è di più: non solo io sono di Cristo, ma io sono in Cristo. Non mi appartengo più: Cristo è il mio io. Non è solo la logica del genitivo di appartenenza (sono di Cristo), ma del nominativo di identità: non vivo più io, è Cristo che vive in me (Gal 2,20). Le mie mani, i miei piedi, il mio pensare e il mio agire sono mossi dal suo cuore.

4. Per la fede, oggi, l’unico modo per non snaturarsi in un indolente e accomodante conformismo è quello di riportare Cristo al centro di ogni cristiano, al cuore di ogni comunità, alla radice di ogni nostra attività. È per questo che siamo stati battezzati.
E l’appuntamento con Lui oggi? L’appuntamento è qui, ora. S. Tommaso afferma: Cristo, Verbo incarnato, "con la sua presenza raggiunge (attingit) tutti i luoghi e tutti i tempi". La santa eucaristia è il "prolungamento" della sua incarnazione, l’irradiamento della sua Pasqua, l’estensione nello spazio e nel tempo di tutti gli eventi salvifici, "così che siano resi in qualche modo presenti a tutti i tempi, perché i fedeli possano venirne a contatto (attingant) ed essere ripieni della grazia della salvezza" (SC 102). Il mirabile sacramento non è una sorta di "clonazione" di Cristo, il quale è e resta uno e unico, e perciò assolutamente non divisibile né reduplicabile. L’eucaristia non moltiplica la sua persona; estende e quasi distribuisce la sua presenza.
Possiamo fare nostra la struggente invocazione di s. Anselmo: "Ti supplico, Signore Dio mio, insegna al mio cuore dove e come cercarti, dove e come possa trovarti. Signore, se tu non sei qui, dove andrò a cercarti? Se poi sei dappertutto, perché non ti vedo qui presente?".

Commento di mons. Francesco Lambiasi
tratto da "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi"
Ave, Roma 2008