Omelia (18-01-2009) |
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Eli nella vita di Samuele; Giovanni il Battezzatore nella vita dei due discepoli dei quali di uno solo conosciamo il nome, Andrea; Paolo, per le cristiane e i cristiani di Corinto. Eli, Giovanni, Paolo: sono nomi di coloro che chiamiamo maestri. Per ciascuno di noi ci sono stati dei mentori, ognuno di noi ha incontrato, nel viaggio della sua vita e della sua fede, dei maestri, delle persone che lo hanno aiutato a trovare la propria strada, che gli hanno insegnato a camminare quando ancora le proprie gambe erano troppo deboli e non lo reggevano, che hanno scommesso sul suo futuro quand’esso ancora non era che una speranza più debole delle gambe. Samuele sarebbe diventato un grande profeta, i due discepoli, negli anni dopo la Pasqua, sarebbero diventate due colonne del nuovo Israele, e i corinti, chissà, forse evangelizzatori, certamente componenti di una comunità cristiana di cui ancora oggi parliamo dopo quasi duemila anni. Ma all’inizio? Tutte queste persone, da dove sono partite, e che cosa erano quando sono partite? Che cosa ha fatto di loro quei grandi uomini che sono stati? Certo, tante cose li hanno fatti diventare quello che sono diventati, ma tra queste certamente c’era il fatto di avere incontrato dei grandi maestri. Insegnare davvero significa arrivare ad incontrare ciò che c’è di più vitale in un altro essere umano, tanto che un cattivo maestro può anche arrivare a distruggere il proprio discepolo. I buoni maestri sanno invece aprire spazi nuovi, ampliare e arricchire l’aria dei polmoni dei propri discepoli, mostrar loro molteplici strade e possibilità, aiutarli a scoprire parti importanti di se stessi. E noi, perché siamo diventati quello che siamo diventati, nella nostra vita? Per tanti motivi, grazie a tanti fattori, ma tra questi certamente c’è anche quello legato alle persone che abbiamo incontrato. Noi siamo quello che siamo anche perché abbiamo incontrato alcune persone invece che altre, a partire dai nostri genitori, dai maestri a scuola, gi amici d’infanzia, i loro genitori, alcuni preti piuttosto che altri, e così via. Giovanni il Battezzatore ha l’umiltà di alzare il suo dito, e di indicare un altro maestro, il Messia, che lui guarda come l’agnello che porta il peccato di tutto il mondo. E così egli stesso diventa sacramento dell’unico maestro, Gesù Cristo. Anche Eli ha la sapienza di aiutare il suo giovane discepolo a relazionarsi direttamente con Dio, in un dialogo personale nel quale non c’è più spazio per lui. E Paolo, arriverà a scrivere ai corinti che litigano per appartenenze parziali e diverse: "ma che cosa è Apollo? Che cosa è Paolo? Ministri, attraverso i quali siete venuti alla fede e ciascuno secondo che il Signore gli ha concesso!" (1Cor 3,5). Persone grandi, perché guidati da una grande libertà interiore hanno aiutato i propri discepoli ad andare al di la di loro. Di mano in mano, questa stessa libertà dei veri maestri è giunta fino a noi, ed è grazie ad essa che noi, dopo tanti secoli, siamo ancora nel numero dei discepoli di Gesù di Nazareth. È grazie a una infinita schiera di donne e di uomini che di generazione in generazione si sono passati tra le mani il nome di Gesù, il suo vangelo santo, e hanno aiutato chi era più giovane ad avvicinarsi al maestro di Galilea. Genitori, vescovi, monache e monaci, catechisti, preti, madri e padri nello spirito che hanno amato i propri discepoli come se fossero figli, e genitori nella carne che hanno generato figli per il Signore. Oggi dobbiamo pensare a questa infinita nube di maestri, molti dei quali sono sconosciuti, che dal Battezzatore del Giordano in poi arriva fino ai nostri giorni, fino a ciò che ieri ci ha nutriti e ha fatto di noi dei discepoli di Gesù Cristo. Ecco che cosa siamo diventati, grazie a tutti costoro: dei discepoli di Gesù Cristo, che lo seguono come lo seguirono quel giorno i due giovani che volevano rimanere con lui, conoscerlo, sapere dove abitasse. Gesù non sceglieva i suoi discepoli tra le persone elette, non ne ha mai fatto una casta, un gruppo nel quale poteva entrare solo chi era dotato in maniera speciale, al di sopra degli altri. Egli preferiva invece pescare tra le persone normali. Sì, noi, persone normali, possiamo stare alla scuola di un maestro così grande. Persone normali, che hanno bisogno di tornare continuamente alle parole del proprio maestro, in un’infinita ricerca di significato, in un’instancabile operazione di interpretazione, di riflessione, di applicazione. Anno dopo anno, torniamo a sentire le parole del maestro, le facciamo risuonare in mezzo alle nostre assemblee, ascoltiamo le guide delle nostre comunità che ci donano nelle omelie alcuni elementi di interpretazione perché ciascuno di noi possa lasciarsene illuminare nell’esperienza quotidiana. Per questo, come ogni anno, dopo le feste di Natale oggi riprendiamo a leggere daccapo il vangelo, lo ripercorriamo ancora una volta, alla ricerca del maestro. Lui ha detto parole aperte a infiniti significati, capaci di parlare ad ogni donna, ad ogni uomo, con l’unica condizione che ripeteva sempre: state svegli! Vigilate. L’anno liturgico, all’inizio dell’Avvento, era partito da questo invito del Signore alla sua comunità: "Fate attenzione, vegliate!" (Mc 13,33). Al suo culmine, nei giorni della Pasqua, sentiremo ancora il racconto del Getsemani, e le parole rivolte dal maestro a Pietro: "Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare un’ora soltanto?" (Mc 14,37). Oggi, iniziando il tempo ordinario, ci rimettiamo alla scuola del Maestro, rifacciamo ciò che ogni anno la liturgia ci fa fare, in una ripetitività di ascolto e di attenzione che vuole tentare di strapparci ogni volta al sonno, vuole aiutarci a vivere con gli occhi aperti, vuole farci uscire dalla notte dell’incomprensione e del tradimento. Perché è venuto, nel mondo, l’agnello di Dio, a farsi sgozzare? Perché noi vivessimo con gli occhi aperti, ci svegliassimo! Commento a cura di don Gianni Caliandro |