Omelia (25-01-2009)
padre Gian Franco Scarpitta
Uscire da Ninive

Ezechiele ci informa che Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva (Ez 18, 23) e questo ci ragguaglia ancora una volta sul primato di Dio amore messo a confronto alla nostra ostinazione per il male e alla nostra volontà di autoaffermazione e di indifferentismo etico e religioso. Dio non si arrende alla presunzione umana e alla malvagità, ma vi corrisponde manifestando amore e misericordia in molti modi possibili, ma anche e soprattutto nel costante richiamo alla conversione. Quando si tratti questo concetto, occorre sempre considerare che il primo soggetto di conversione è sempre Lui, Dio amore, che per primo ci chiama alla comunione con sé e non omette mai di ricorrere a tutti i ricorsi e di sfruttare ogni risorsa affinché l’uomo desista dalla sua condotta.
Dicevamo che la conversione è una realtà di amore appunto perché chi converte (Dio) lo fa per amore all’umanità e non già per affermare il suo predominio e la propria volontà coercitiva e tassativa: che noi si cambi vita non costituisce un problema per Dio, poiché Egli in ogni caso rimane sempre il Medesimo senza nulla perdere della sua natura e delle sue prerogative di grandezza e di onnipotenza; a rimetterci nella mancata conversione siamo piuttosto noi che nella nostra resistenza manchiamo all’appuntamento con l’amore. Rifiutare l’appello di Dio equivale a volersi smarrire, perdersi e annullare se stessi, smentendo perfino la propria dignità e per ciò stesso equivale a danneggiarsi. Le varie alleanze bibliche, specialmente quella realizzata con Abramo, rivelano che esse sono necessarie non per Dio ma per l’uomo, essendo questi a trarre vantaggio dalla realizzazione di ciascun patto, come pure sottolineano che l’uomo nuoce a se stesso quando vi manca di fedeltà.
Quale atteggiamento assumere di fronte alla misericordia salvatrice del Dio che converte anziché distruggere? Lo rileva il brano del libro di Giona che oggi ci viene proposto, nel quale il profeta immaginario, che poco prima aveva disobbedito al mandato divino di predicazione ma che finalmente si era convertito egli medesimo alla volontà del Signore, parla a quella che potremmo oggi definire la "metropoli" di Ninive: percorre la grandissima città predicando la conversione per fuggire all’ira divina che avrebbe distrutto tutti quanti e adopera un linguaggio adeguato alla condizione dei suoi interlocutori: infatti Ninive è la città biblica della miscredenza, del rifiuto di Dio e dell’indifferenza religiosa, emblema di ostilità e di refrattarietà umana alla salvezza. I cittadini insomma sono atei e avversi. Eppure proprio loro comprendono, assimilano, si convincono e cambiano immediatamente impostazione culturale trasformando di conseguenza la loro vita al meglio; considerando la grettezza dei Niniviti, si comprende così che nei loro confronti la severità minacciosa di Dio non è che un atto d’amore nei loro riguardi perché l’avvertimento fa si cha la città non venga distrutta. Sempre considerando la riluttanza consueta di Ninive, notiamo che l’atteggiamento di questo popolo ateo e miscredente è dei più lodevoli e merita molta ammirazione: essi ascoltano e cambiano vita, come forse non farebbero tanti presunti "fedeli".
Pescatori di uomini diventeranno, dopo l’invito di Gesù, non già persone erudite nella Legge e nella Dottrina, neppure uomini di buona reputazione o che abbiano dei meriti al di sopra di tutti gli altri, bensì dei pescatori, ossia delle persone rozze e illetterate che riconoscono in Gesù il Salvatore e non esitano a mettersi alla sua sequela seguendo l’imprevisto di dover cambiare radicalmente la loro vita; ma ciò avviene perché in loro è maturato un processo di conversione radicale e motivato che li ha condotti a conoscere il Signore che per amore li chiamava a sé.
Anche a loro Dio si propone nella persona del Figlio Gesù Cristo per imprimere nei loro giorni e per trasformare la loro vita secondo progetti che fino ad allora non erano stati maturati.
Di fronte all’appello di Dio che interpella sempre l’uomo e lo chiama alla conversione per la salvezza va sempre posta la fiducia e l’apertura del cuore, affinché non si esiti a riconoscere il Signore come nostro amico e compagno di cammino; forse alla base della nostra convinzione di Dio dovrebbe esserci la convinzione propria di Paolo che "Passa la scena di questo mondo" o di Gesù "Il tempo è compiuto". L’Apostolo delle genti invita a considerare la vanità e l’effimeratezza del presente vano e superfluo da cui siamo attratti e che ci fa confondere l’utile con l’indispensabile, che tutto quello che per noi è finalità altro non è che un mezzo e in ogni caso non è mai duraturo, sicché conviene lasciare che questo mondo passi e optare piuttosto per il Signore che invece dura per sempre: "Coloro che usano del mondo facciano come non ne usassero a fondo".
Le incertezze e le disillusioni del compromesso e della propaganda molte volte ci inducono a sperare nella mondanità e nelle certezze umane e di conseguenza nella presunta affermazione dell’onnipotenza dell’uomo, ma quello che è necessario è solo Dio e corrispondere all’appello di conversione equivale a trovare il necessario per noi e appunto la convinzione radicata e convinta che solo Dio può soddisfare le nostre attese è alla base della conversione e del cambiamento della nostra vita per un'alternativa migliore alla scelta del peccato: convertirsi vuol dire riconoscere la validità del messaggio di Dio che ci chiama a sè nonostante noi siamo peccatoi, anzi appunto perché lo siamo, immedesimarci nell'amore riconciliante del Signore per entusiasmarcene, riconoscere la nullità che comporta il nostro stato di peccatori, la nefandezza e la rovina del peccato e di conseguenza deciersi per Dio e camminare nella notvità di vita.
Un impegno che scopriremo esaltante fra poche settimane, quando intraprenderemo la Quaresima, ma che la liturgia odierna ha voluto ora farci assaporare previamente.