Omelia (25-01-2009)
don Marco Pratesi
Sperare per tutti

A Giona era già stata rivolta la parola del Signore che lo inviava a Ninive (1,2), ma egli aveva pensato bene di partire in direzione opposta, verso l'occidente (Tarsis, 1,3). Il motivo lo dirà poi egli stesso: temeva che, come in effetti sarebbe accaduto, la misericordia di Dio gli avrebbe fare una figuraccia, e il castigo annunziato non avrebbe avuto luogo (cf. 4,2-3). Dio però non lo molla, e dopo varie peripezie il profeta disertore deve cedere e andare a Ninive. La città, in una parabola come il libro di Giona dove tutto allude, non è scelta a caso: era odiosa per gli ebrei, emblema di arroganza e crudeltà. Per convincersene, basta leggere il breve ma intenso libro del profeta Nahum, interamente dedicato a Ninive e alla rovina per essa da Dio decretata. L'Assiria aveva spadroneggiato e oppresso tutta la regione mediorientale, distrutto il Regno del Nord e minacciato seriamente la stessa Gerusalemme. Un ebreo non poteva provare che un senso di profonda avversione nei confronti di questo popolo, anche se nel postesilio, tempo in cui viene scritto il libro di Giona, la sua potenza era tramontata da un pezzo: Ninive era stata distrutta nel 612 da Medi e Babilonesi. Il paradosso, sicuramente cercato, è questo: che tale città, pagana, orgogliosa, potente, arrogante, sia presentata come esemplare nella conversione. Giona non fa a tempo a percorrerla tutta ("tre giornate di cammino", il dato è iperbolico) che già tutti quanti si convertono, dai grandi ai piccoli, e si fa penitenza dal re sino agli animali (3,7-9, non letto). Geremia non aveva certo avuto un tale successo con Israele e la corte di Gerusalemme (cf. c. 36)! "Se invece che a Israele ti inviassi a popoli barbari, accoglierebbero meglio il tuo messaggio", aveva detto il Signore al profeta Ezechiele (cf. Ez 3,4-7).
Il risultato della conversione dei niniviti è la salvezza: Dio recede dal suo proposito di punizione (cf. Ger 18,8; Ez 18,21-22). Ciò provocherà l'irritazione di Giona e l'intervento finale di Dio, che lo rimprovera per la sua grettezza e lo invita ad avere a cuore, come Dio, la salvezza di tutti, anche fuori di Israele.
Per l'Israele postesilico, tentato dall'isolamento nazionalistico, la lezione è severa. Dio è Dio di tutti e ha a cuore la salvezza di tutti. Anche fuori d'Israele si può trovare una reale apertura a Dio, addirittura superiore a quella di Israele. In Giona è senz'altro ravvisabile Israele stesso, popolo recalcitrante ma che Dio non abbandona e continua a spronare perché allarghi i suoi orizzonti fino all'ampiezza di quelli divini. Israele ha un messaggio per l'umanità: non deve opporre resistenza a un Dio che rifiuta di lasciarsi rinchiudere nelle strettoie umane.
Come si vede, c'è una forte prossimità spirituale al Nuovo Testamento e a Gesù, che davanti a un pagano esclama: "in nessuno, in Israele, ho trovato tanta fede" (Mt 8,10-12; Lc 7,9). Egli cita esplicitamente, insieme a un'altra straniera, la regina di Saba, i niniviti, come esempio di una disponibilità all'ascolto e alla conversione che fa risaltare la durezza dei suoi interlocutori israeliti (cf. Mt 12,41, Lc 11,32); e più volte afferma il capovolgimento delle prevedibili classifiche umane operato dall'annunzio evangelico, per cui gli ultimi diventano primi e viceversa (Mt 19,30; 20,16; Mc 10,31; Lc 13,30).
Nessuno è padrone dei doni di Dio, nessuno del suo giudizio. Si tende sempre, più o meno consapevolmente, a rinchiudere Dio nei nostri recinti. Sempre ne evade, spinto com'è dal costante e ardente desiderio - che dev'essere anche il nostro - del bene di tutti: "Forse che io ho piacere della morte del malvagio o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?" (Ez 18,23).