Omelia (08-02-2009)
padre Gian Franco Scarpitta
Dove trovare il senso della sofferenza

Occorre ammettere che la nostra fede viene spesso messa a dura prova da avvenimenti contristanti e desolanti, quali quelli che si sono verificati fra le mie conoscenze durante il trascorso anno 2008, quando ho dovuto assistere alla scomparsa improvvisa di una mia conoscente, che avevo sempre considerato a ragione una zia: nel pieno delle sue attività di inventiva e di intraprendenza, senza alcun preavviso circa malattie, disturbi, patologie di sorta e senza che nessuno si aspettasse un simile evento, cade per terra inspiegabilmente senza più rialzarsi. Ictus fulmineo inaspettato. Pochi mesi dopo il marito, anch’egli da sempre attivo, vivace e dedito alle mille iniziative, scopre che un tumore lo sta divorando; ha appena il tempo di illudersi dell’efficacia di una terapia medica che si rivela invece insufficiente ma viene anch’egli sottratto ai nostri giorni. Due persone strappate alla vita inaspettatamente e nel giro di pochi mesi!!
Un’altra ragazza, di età veramente inaudita per poter parlare di morte e anch’essa dal carattere solare ed espansivo, di salute ferrea, intaccata da un tumore al seno che la conduce al decesso nel giro di pochi mesi. Per non parlare poi di tanti giovani, anch’essi da me conosciuti, costretti alla sedia a rotelle e all’assistenza medica e infermieristica continue a causa della sclerosi multipla, che colpisce senza preavviso e senza misericordia costringendoti molto spesso a preferire la morte al dolore. Tanta e tale è la sofferenza.
La nostra esistenza è poi molto beffarda e ironica con noi, visto che tante persone muoiono nella circostanza di malattie assurde ed impensabili mentre altre sopravvivono a lungo salvandosi in casi di estremo pericolo; come anche burla della sorte è notare la longevità di tante persone che vivono senza particolari fastidi mentre altre muoiono per malattie o malesseri improvvisi.
C’è da concludere che l’infermità fisica è un morbo per nulla estraneo alla nostra convivenza, specialmente nella forma delle malattie gravi e incontrollabili, e che mentre da una parte esaltiamo le nuove conquiste della scienza medica, dall’altra deploriamo la sua insufficienza incontrando malattie ancora prive di una spiegazione eziologica o comunque non sempre circoscrivibili quanto alle cause e alle soluzioni.
La malattia è sempre stata una realtà contro la quale l’uomo deve lottare. E’ un fattore inevitabile che da sempre ha accompagnato la nostra esistenza e contro il quale sempre ci si è premuniti e difesi e ancora oggi è assurdo gridare al pericolo dell’AIDS e di altre infezioni di fine millennio quando sussistono ancora patologie e malesseri reconditi che mietono indisturbati milioni di esseri umani; per evitare l’aids basta solo fuggire la sregolatezza e l’illiceità degli atti sessuali disordinati fuori dal matrimonio così come da sempre insegna l’etica cristiana, ma il tumore i vari morbi non hanno soluzione alcuna!
Ma al di là delle interpretazioni che noi possiamo dare al fenomeno dell’infermità fisica, riscontriamo che essa, in modo consistente, interpella anche la nostra fede poiché la Scrittura non elude affatto la realtà del dolore e della morte, ma piuttosto la descrive come cosa certa ed inevitabile: nell’Antico Testamento le malattie erano considerate come la conseguenza di un peccato commesso da chi ne era rimasto affetto p da qualcuno dei suoi progenitori e pertanto erano interpretate alla stregua di una punizione divina che, specialmente nel caso della lebbra, isolava l’infermo dalla società; il libro di Giobbe, a cui attinge la prima Lettura di oggi, è emblema invece dell’integerrimo giusto fedele e sofferente costretto suo malgrado a subire il male e a sopportare ogni sorta di dolore dietro divina permissione, messo a raffronto con il malvagio che invece sembra godere di ogni favore salutare e di ogni prosperità. Giobbe, nel dolore fisico e nella sofferenza, considera attentamente codesta sua situazione e ne invoca da Dio la spiegazione, anche considerando la sua innocenza quanto alle colpe e al male commesso: perché si deve soffrire? Perché la malattia deve attanagliarmi così atrocemente? Perché deve soffrire il giusto e gioire l’iniquo?
Il dialogo di Giobbe con i suoi interlocutori si concluderà con la costatazione che il dolore fisico rientra nella sfera della volontà di Dio, e per ciò stesso che ogni malattia è da Dio sottoscritta per un determinato scopo che non è mai quello della persecuzione del giusto a vantaggio del perverso, ma che ha di mira la sua santificazione e la purificazione dell’uomo e il suo premio in seguito alla perseveranza. La malattia ha una finalità educativa che mette a raffronto l’uomo con se stesso e con la propria insufficienza e che aiuta a scoprire la nostra fondamentale debolezza; ma quello che è più importante, il dolore fisico è occasione per entrare in comunione intima con Dio e per quanto esso sembri contraddittorio con la realtà di un Dio buono, giusto e benevolo nei nostri confronti, va affrontato e sostenuto con rassegnazione e fortezza d’animo, sempre pronti a consacrare ogni nostro vagito al Signore nella consapevolezza che la malattia aiuta a familiarizzare con Dio.
Il Signore si mostra sempre solidale con chi soffre, poiché il dolore del giusto coincide con il suo stesso dolore, e questo soprattutto nel mistero della morte di Cristo: egli nella croce si appropria di ogni nostra sofferenza condividendo il nostro dolore con il suo, per la qual cosa nel Crocifisso riscontriamo la certezza che il dolore trova la consolazione nelle parole della fede; e poiché nella misura in cui si soffre ci si crocifigge, ebbene nella misura in cui si soffre ci si dispone alla resurrezione delle nostre ricompense.
Nella sua vita pubblica Cristo si rende sempre solidale con chi soffre l’infermità fisica nell’intervento a favore degli ammalati che giungono a lui anche dopo il tramonto del sole, si accosta a loro senza riserve donando loro la guarigione in conseguenza della loro accettazione del mistero di salvezza e così prodigandosi Egli si mostra anche vincitore sulla realtà del dolore e della malattia apportandovi il suo senso e il suo contributo di gloria. Cristo non si presenta come un medico, ma mostra la sollecitudine di Dio verso i sofferenti per avere ragione del dolore e della morte e per ciò stesso anche del peccato e della miseria morale dell’uomo e infatti chi torna a casa dopo essere stato sanato da Gesù ha la certezza di essere stato anche liberato.
L’unica condizione che Egli pone è quella della fede, ossia dell’abbandono libero e spontaneo in lui e della disposizione a percorrere tutti i suoi sentieri
Chi è gravato da una grave infermità, anche in prospettiva della morte, è così consolato dalla presenza effettiva ed esaltante del Signore, che non manca mai di rivelare la sua presenza conciliante atta a confortare e a risollevare e anche quando, a differenza che nei miracoli evangelici, non ottiene la guarigione fisica immediata per cui nella fede in Cristo si evince la motivazione per cui la sofferenza va accolta e sopportata.
Un luogo privilegiato in cui tutto questo si verifica è certamente quel sacramento da noi purtroppo ancora considerato come risolutivo per i soli moribondi, ossia il Sacramento dell’Unzione, che è invece destinato a tutti coloro che sono gravati da un male fisico consistente e che segna la condivisione della sofferenza umana con il patire di Cristo; in esso è lo stesso Signore che agisce per esaltare la sopportazione dell’ammalato, per approvare la sua persistenza nel dolore e condividere con lui il pianto e i patimenti, avendoli Egli stesso sofferti nel patibolo della croce, per cui ogni malore lo si affronta nell’ottica della speranza che poggia sulla fede e per ciò stesso sulla consolazione che provengono dallo stesso Signore.