Omelia (08-02-2009) |
don Marco Pratesi |
Un alito di vento Il brano è parte della risposta di Giobbe (cc. 6-7) al discorso di Elifaz (cc. 4-5), all'interno del primo ciclo di discorsi (cc. 3-14). Qui Giobbe risponde alle parole, anche belle, anche sensate, del sapiente di Teman, facendo semplicemente presente la propria condizione di dolore. Di fronte al dolore, infatti, che cosa possono le giustificazioni razionali? La realtà rimane quel che è, e questa lettura la dipinge servendosi di tre paragoni: il soldato (il v. 1 allude al servizio militare), il bracciante e lo schiavo. Siamo ai gradini più bassi della scala sociale, e tutte sono condizioni nelle quali si lavora, e duramente, per qualcun altro, per opere e cose non proprie, perseguendo fini altrui. Situazioni alle quali ci si sottopone forzatamente, subendo una preponderanza. In questi casi, tuttavia, esiste pur sempre una prospettiva: lo schiavo ha momenti di sollievo, il bracciante il suo salario giornaliero, il soldato può avere il cambio (cf. 14,14). Nella condizione umana, invece, della quale queste condizioni sono immagine, la prospettiva del sollievo si rivela semplicemente un'illusione. La vita umana è vana attesa di qualcosa che non arriva; non c'è salario alle fatiche, non c'è alcun refrigerio, al contrario: ciò che arriva - unico sollievo - è la morte. La vita infatti scorre velocemente, e l'uomo non fa a tempo a sedersi al banchetto della vita che già deve alzarsi e far posto ad altri. Perciò la vita è inquietudine, smania e trepidazione; ansia e affanno, miraggio e illusione (cf. Qo 2,23; Sir 40,1-9). Tutto questo rimane spesso inavvertito, ma emerge con prepotenza quando - come succede a Giobbe - il normale flusso dell'esistenza viene spezzato dal dolore: allora l'assurdo sembra l'ultima parola. E Dio? Brano mirabile, di grande spessore esistenziale. Che cosa ha da dirci? Non soltanto (anche questo) da che cosa, come cristiani, siamo salvati. Ci dice quello che continuiamo a essere, ovvero quello che di nostro portiamo nel rapporto con Dio; e chi è questo uomo che Dio ha scelto come interlocutore, come amico; essere limitato, ma con una smisurata fame di vita. Le due cose sono da tenere ben presenti, e insieme, per evitare due pericoli. Il primo è l'inavvertenza del limite umano, che dà luogo alla superbia, all'orgogliosa affermazione di sé, tante volte stigmatizzata nella Bibbia. Di fronte a ciò il salmista prega: "Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore" (Sal 90,12). Conservare vivo il senso del limite umano è sapienza, perderlo è stoltezza e vana arroganza. Il secondo rischio è, all'opposto, la disperazione, il cercare la morte (in varie forme) come risposta e rimedio al "male di vivere". Giobbe avverte questo fascino della morte: "Perisca il giorno in cui nacqui!" (3,3). Terribile seduzione della morte come soluzione alla vita! L'uomo della Bibbia, il credente, rappresentato da Giobbe, sfugge a entrambi queste trappole. Vivi il tuo limite alla presenza del Signore! Vivi la tua sete di vita, la tua inquietudine, la tua angoscia non da solo, ma in rapporto con lui. Sappi chi sei tu, ma sappi anche chi è lui! Così Giobbe troverà una risposta, che anche dopo Cristo conserva valore: non una teoria di cui finalmente è soddisfatto (comunque insoddisfacente e inconcludente), ma il rapporto col Signore. Per questo resta essenziale non imbellettare la realtà con i nostri sistemi razionali e avvertirne tutta la criticità. Dio, vuole essere lui il Salvatore; è questa la sua gloria, e non la cederà ad altri. I commenti di don Marco sono pubblicati dal Centro Editoriale Dehoniano - EDB nel libro Stabile come il cielo. |