Omelia (08-02-2009) |
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Commento su Marco 1,29-39 COMMENTO ALLE LETTURE Al centro della liturgia di questa domenica c'è senz'altro il tema del miracolo, cioè la guarigione della suocera di Pietro. Si tratta del risanamento e della guarigione dalla sofferenza, dunque della capacità di Dio di venire incontro all'umanità. Ma dall'insieme delle letture mi sembra che possiamo anche sviluppare e riflettere a proposito di un altro tema: quello della comprensione della "buona novella" e dell'impegno nella testimonianza. Iniziamo la nostra riflessione da alcuni versetti che troviamo nella prima lettura di oggi: I miei giorni scorrono più veloci d'una spola, svaniscono senza un filo di speranza. Ricordati che un soffio è la mia vita (Giobbe 7,6-7) Questa affermazione che troviamo nel testo di Giobbe può essere senz'altro condivisibile, per quanto riguarda il primo ed il terzo versetto. Senz'altro i giorni della vita nel complesso scorrono veloci; ogni singolo giorno può sembrarci lungo ed anche pieno di eventi, ma quando ci voltiamo indietro (specialmente se iniziamo ad avere una certa età) ci capita spesso come può essere passato così velocemente il tempo e come non siamo riusciti a trattenere un attimo, un momento: come il passato è passato (ed in quanto tale non modificabile, può al massimo essere oggetto di rivisitazione, di pensiero di analisi, di pentimento), l'oggi è quello che abbiamo davanti, quello che viviamo e che presentiamo a Dio. Il futuro è mistero, nelle mani del Padre. Il terzo versetto citato trae quindi la conseguenza di quanto detto; se il tempo è una variabile che non possiamo dominare, possiamo solo fare mente locale ad un fatto con cui, volenti o nolenti, dobbiamo fare i conti: la vita è breve e finisce presto, non è nulla rispetto all'eternità. Siamo destinati a morire. Può succedere prima o dopo, in modo più o meno piacevole, saremo più o meno preparati ad affrontarlo ma sicuramente è un evento che dovremo affrontare. Se non abbiamo altro che la nostra esistenza allora possiamo dire con Giobbe (i miei giorni) "svaniscono senza un filo di speranza". Infatti la nostra esistenza in questa ottica è come una candela che si consuma, bruciando ogni giorno si accorcia, fino a consumarsi e non rimane più niente... Si può riprendere il salmo 90, che tratta della fragilità dell'uomo, ed in particolare i versetti in cui il salmista rivolgendosi a Dio dice: "Prima che i monti fossero nati e che tu avessi formato la terra e l'universo, anzi, da eternità in eternità, tu sei Dio. Tu fai ritornare i mortali in polvere, dicendo: «Ritornate, figli degli uomini». Perché mille anni sono ai tuoi occhi come il giorno di ieri ch'è passato, come un turno di guardia di notte." Una vita umana breve, corta, forse un po' insensata, di fronte ad un Dio apparentemente lontano. In questa visione della vita le varie opzioni che sono state proposte nei secoli, da quella di Lorenzo de Medici "chi vuol esser lieto sia, del diman non v'è certezza", ovvero sia l'invito a godersi tutto qui ed ora perché il futuro non garantisce niente, a quella panteista, per cui facciamo parte di un tutto e a quel tutto ritorneremo, a quella razionalista-scientifica per cui siamo anelli della catena evolutiva e nulla più... Tutte sono tutte degne di rispetto e sulle quali ognuno di noi è libero di orientare le proprie scelte. Ma troviamo una breve frase del Vangelo di oggi, che Gesù pronuncia dopo avere operato il miracolo della guarigione della suocera di Pietro: Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!». Iniziamo riflettendo sulla parte finale della frase "per questo infatti sono venuto!". Ci pensate? Siamo troppo abituati dalla nostro cultura giudeo-cristiana all'idea di un Dio che si fa uomo, ma se ci fermiamo a pensarci, quello è il vero miracolo: l'Incarnazione, un Dio che prende su di sé la condizione umana, escluso il peccato, ed accetta di farsi vittima sacrificale per la redenzione di ognuno di noi. Le famose parole della lettera ai Filippesi ed il loro significato ci dovrebbero lasciare sbigottiti davanti ad un mistero così profondo: Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Mistero che, in realtà, può essere considerato su due piani: quello di un Dio che si fa uomo in mezzo a noi, ma che annuncia (ed insegna ai suoi discepoli ad annunciare) la sua natura divina e l'avvento del Regno. Cristo portatore di speranza, Colui che supera la morte con la sua resurrezione da, se ci crediamo veramente, una luce nuova alla nostra vita, che non è più un susseguirsi di eventi legati all'esserci qui ed ora, ma diventa cammino in prospettiva di speranza, di partecipare ad una vita attuale che è inizio del Regno che ci è stato promesso. In realtà tutto si gioca sulla nostra capacità di crederci veramente: ci crediamo? La domanda può sembrare retorica ma non lo è affatto, infatti se ci crediamo c'è in gioco la salvezza dell'anima e la vita eterna... Mi rendo conto che questo linguaggio può suonare alle orecchie di molti desueto e poco accattivante, tradizionalista e fuori dall'orizzonte temporale di modernità e progresso in cui viviamo. Tuttavia come ignorare che il tempo passa per ognuno di noi, la nostra morte avverrà certamente anche se non ne sappiamo né il giorno né l'ora... tutto questo è terribilmente cupo e triste, ma se crediamo che Gesù è la nostra salvezza, c'è un'altra prospettiva; per questo vi chiedo (e mi chiedo) ci crediamo veramente? Nella seconda lettura che abbiamo ascoltato San Paolo dichiara: "guai a me se non annuncio il Vangelo!" Di sicuro San Paolo da un certo punto in poi ha creduto fermamente in Gesù e la conseguenza è stata una vita dedicata all'annuncio. Chi capisce che la salvezza è in Gesù non può non farsi latore di quello che ha capito, non può non farsi come dice San Paolo "tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno." Questo è il movente della missionarietà, che non riguarda soli i consacrati, ma tutti coloro che nel loro cuore capisco che la proposta di Gesù è per tutti gli uomini. In questa lettura che abbiamo ascoltato oggi tratta dalla Prima Lettera ai Corinzi c'è un aspetto che vorrei evidenziare per la sua attualità sconvolgente. Dice San Paolo: "Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli". Annunciare il Vangelo, credere nella salvezza in Gesù non significa salire in cattedra, ma testimoniare con umiltà quello che si è capito, cercare di adottare un linguaggio che anche l'altro possa capire, testimoniare coi fatti e non solo con le parole o bei rituali, il proprio credere... Testimoniare comunicando con gli altri, magari morendo anche un po' a noi stessi pur di annunciare... Sembra facile! Eppure dovrebbe essere il nostro sforzo, il motivo del nostro vivere, legato, come abbiamo detto, alla prospettiva del nostro non essere eterni ("Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo"). Per concludere vorrei pregare il Signore con voi perché diventino nostre le parole di San Paolo: "tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch'io". Che il Signore ci conceda di essere annunciatori instancabili della sua Parola. A Colui che era, che è e che viene, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli. Amen |