Omelia (08-02-2009) |
don Daniele Muraro |
Paolo al servizio del Vangelo - 2 Giobbe, a cui viene data la parola nella prima lettura, è l’emblema della sofferenza. La sua pazienza, passata in proverbio, non gli impedisce di lamentarsi e solo alla fine il suo discorso diventa preghiera rivolta verso Dio. Il ragionamento di Giobbe nel brano riportato per oggi si sviluppa in questi termini. Al principio Giobbe allude alla triste condizione di tre categorie di persone: il bracciante, il soldato e lo schiavo. Siamo ai gradini più bassi della scala sociale: sono tutte condizioni si lavora per qualcun altro e perseguendo fini altrui. Il contadino salariato ha un duro lavoro da portare a termine prima di sera, il soldato mercenario deve rispettare una disciplina ferrea prima di smontare dal turno di guardia, lo schiavo spesso è costretto a lavorare sotto il sole. Nonostante la costrizione evidente, in tutti questi casi, tuttavia, esiste pur sempre una prospettiva di sollievo: lo schiavo ha momenti di pausa, il bracciante la sua paga giornaliera, il soldato può avere il cambio. Per una persona sofferente, invece, la possibilità il sollievo il più delle volte si rivela semplicemente un'illusione. La notte non finisce mai, dice Giobbe, descrivendo i suoi dolori, i giorni invece sono più veloci di una spola, vanno via veloci e senza rimedio. Le amare considerazioni di Giobbe terminano con una preghiera a Dio che si degni di considerare la fragilità dell’esistenza umana. Curiosamente le immagini di cui si serve Giobbe per descrivere la sua prostrazione nella malattia ritornano nella seconda lettura. San Paolo parla della sua missione e chiarisce che se annuncia il Vangelo egli lo fa non di sua iniziativa, per ricevere una ricompensa, ma per un incarico ricevuto. In questo senso potremmo dire che egli vive alla giornata, senza sicurezze economiche. Sappiamo anzi che quando potè, a Corinto, per non essere di peso a nessuno, esercitò il suo mestiere di tessitore di tende. Di più, egli pur essendo nato libero e cittadino romano, non esita a farsi servo, schiavo, di tutti quelli che incontra. Egli spera così che attraverso la sua generosità molti si convertano alla fede. Altrove san Paolo parla anche della buona battaglia che ha combattuto e per la quale si aspetta la ricompensa dal Signore. Precario quanto a risorse materiali, schiavo del prossimo e soldato di Cristo, a differenza di Giobbe san Paolo non perde tempo a lamentarsi, né tantomeno si commisera, perché sa di avere una missione da portare a termine: diffondere l’annuncio del Vangelo. Se ci chiediamo quale sia l’energia che muove questo infaticabile Apostolo di Gesù Cristo, la risposta la troviamo nelle parole stesse di san Paolo: non esiste niente altro importante per lui al di fuori dello stesso Vangelo. Esso è per lui incarico e ricompensa, norma di comportamento e libertà di azione, motivo di aspra lotta e canto di vittoria. Anche se viene letto per terzo è chiaro che fra Giobbe e san Paolo sta Gesù. Tra l’atteggiamento della commiserazione di se stesso e l’accettazione della propria debolezza, anzi l’esaltazione del proprio limite quando viene messo al servizio del Vangelo non ci può che essere la rivelazione dell’amore di Cristo. Come dice il versetto dell’alleluja, "Cristo ha preso le nostre infermità e si è caricato delle nostre malattie." Se lo ha fatto lui, vivere il dolore fisico, la sofferenza e alla fine anche la morte per amore diventa possibile anche per noi. La differenza di atteggiamento fra un Giobbe e un san Paolo può essere spiegata anche da una questione di carattere. Di fronte alla sofferenza c’è chi reagisce meglio degli altri, evitando di chiudersi in se stesso e conservando almeno all’apparenza la sua serenità. Di sicuro san Paolo era un tipo estroverso, non facilemente intaccabile dal tarlo della depressione. Nella seconda lettera ai Corinti egli riassume tutte le sue vicissitudini fino a quel punto: Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi (cioè la flagellazione; il quarantesimo colpo era considerato mortale); tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e assenza di vesti." E ancora non aveva perso l’entusiasmo. Tuttavia ad un certo punto anche lui fu messo sotto scacco. Può sembrare strano che un uomo così forte si sia sentito perso di fronte ad una malattia banale, forse una infermità agli occhi, per cui dovette fermarsi qualche mese. Sempre nella stess lettera infatti egli continua: "A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l'allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: "Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza". Anche san Paolo dunque ha sperimentato la debolezza e anche per lui la via di uscita è stata la preghiera: "Tutto posso in colui che mi dà la forza" dice ai cristiani di Filippi. La preghiera è stato anche il segreto di Gesù. Ce lo dice la parte finale del Vangelo di oggi. Gesù non ha solo guarito i malati che gli si premevano intorno, ha anche pregato, anzi san Marco sottolinea che egli ricercava momenti di solitudine per parlare con il Padre suo. Egli era venuto per sanare e salvare. Non per risanare e basta, se dava la salute del corpo era come per anticipare la salvezza dell’anima. Le parole finale di Giobbe nella prima lettura sono incontestabili: "un soffio è la vita: l’occhio non rivedrà più il benessere della propria giovinezza". Quello però che non possiamo trattenere per noi, perché inesorabilmente ci sfugge, lo possiamo donare agli altri, in spirito di condivisione, con gesti di carità, con lo slancio del sollievo morale se non di quello fisico. E tanto più faremo così quanto più saremo uniti a Dio con una vita di preghiera fiduciosa e perseverante. |