Omelia (08-02-2009) |
don Maurizio Prandi |
Una chiesa del servizio La preghiera colletta che la liturgia ci suggerisce di pregare in questa quinta domenica dell’ anno B, dice con chiarezza il filo che unisce le letture che abbiamo ascoltato: Il mistero del dolore e il nostro modo di avvicinarlo, rendici puri e forti nelle prove, perché sull’esempio di Cristo impariamo a condividere con i fratelli il mistero del dolore. Bello allora quello che dice Giobbe: da un lato ci racconta la sua vita difficile, dall’altro ci fa capire che la durezza della vita ha due sbocchi possibili, può precipitare nella disperazione e può aprirsi però anche alla speranza. Leggevo in un commento che il nostro cammino è un cammino che matura e cresce non grazie alla certezza delle risposte, ma che da interrogativo a interrogativo ha la possibilità di giungere, per pura grazia, ad una luce (comunità della SS Trinità in Dumenza). Misteriosamente allora proprio una situazione di dolore, di debolezza, di male può diventare occasione di incontro: con se stessi e con la propria fragilità, con Dio e la sua misericordia, con i fratelli e la loro capacità ci essere compassionevoli. C’’è un particolare nella prima lettura, intrisa (almeno così sembra), di pessimismo: quel RICORDATI che Giobbe dice a Dio e che si può interpretare, io credo, proprio come un desiderio di incontro, come una preghiera, una invocazione, una richiesta di attenzione. Come dire: ecco io cerco qualcuno che abbia un po’ di cuore per l’uomo, che guardi le sue sofferenze e se ne prenda cura. Una risposta significativa a quel RICORDATI credo che venga dal brano di vangelo che abbiamo ascoltato. Una risposta che viene da Dio, che in Gesù incontra il desiderio di Giobbe, ma viene anche dalla chiesa, o meglio, dalla immagine esigente di chiesa che il vangelo di questa domenica ci pone di fronte: gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. L’uomo sofferente, dolorante, forse chiede proprio questo alla chiesa di Dio: di essere riflesso e immagine di quel Dio che porta le ferite dell’uomo, se ne fa carico e se ne prende cura. E’ questo che viene chiesto alla chiesa: non la prontezza nel mescolarsi con il potere, non la prontezza nel dire, nel sentenziare su tutto e su tutti, ma la prontezza nel farsi carico e nel portare chi è spossato, chi non si regge più sulle proprie gambe, chi continuamente cade, chi è devastato dalla malattia e dal dolore. Sono davvero tanti gli spunti che questo brano di vangelo ci regala; credo che un’altra bella immagine di chiesa ce la regalano l’icona della suocera di Pietro e il racconto di questo miracolo solo in apparenza insignificante, perché in realtà è molto responsabilizzante. Forse può capitare che come chiesa ci scopriamo febbricitanti e quindi nella condizione di rischiare di perderci il passaggio di Gesù e l’incontro con Lui. Ecco che Gesù stesso viene a cercarci per rialzarci e porci nell’unica condizione che come chiesa ci è propria: quella del servizio. Mi hanno aiutato molto, durante un ritiro, le parole di don Daniele Simonazzi, il quale sottolineava l’importanza del verbo che l’evangelista Marco usa: il verbo greco diekònei che introduce al fondamentale concetto di ‘servizio’. Contrario del servizio, lo sappiamo bene, è il ‘dominio’. Questo viene dall’orgoglio, quello dall’umiltà. Servire, dunque, è un atto di liberazione dal dominio: se ne libera chi serve e mira a liberarne gli altri che ne sono asserviti. Questa donna, dunque, liberata dalla febbre, si alza per servire Gesù e i discepoli. Il senso primo è qui certamente dare da mangiare, ma sappiamo che nel linguaggio dell’evangelo il mangiare richiama il dare la propria vita da parte di Gesù (Mc 10,45: "Il Figlio dell’Uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti"). Questo servizio è quindi entrato nella stessa logica che guida la vita di Gesù. Se Gesù libera, guarisce, risuscita è per rendere l’uomo capace di servizio, e di un servizio duraturo, come appare dal verbo greco all’imperfetto (li serviva). È in sostanza un essere liberati per liberare altri. Ecco che capiamo bene allora in che cosa consiste la responsabilità alla quale accennavo prima: la chiesa cosa può fare per rispondere a Gesù? Mettersi a servirlo, diventare diakonìa, cioè seguirlo fino in fondo, fino a quello stesso servizio che ancora le donne faranno alla sepoltura. Torna un po’, se volete, quello che domenica scorsa ci dicevamo sull’ essere autocentrati e sull’essere, invece, per gli altri, sull’autoritarismo e sull’autorevolezza: essere autorevoli significa essere come Gesù, al servizio. Davvero però, alle volte, cerchiamo strade diverse, non in linea con il vangelo. Non troppi giorni fa', in una riunione in Diocesi, si cercava di capire insieme se si potesse fare concretamente qualcosa per aiutare chi, in questo momento di crisi economica, si trova in difficoltà, e in un momento per così dire, di febbre, c’è chi ha proposto di creare all’uopo una associazione di imprenditori. Ecco che la tentazione di legarsi al mondo del potere economico spunta prepotentemente e viene da chiedersi perché siamo così tentati a volte di cercare forme di potenza troppo mondane che poi rischiano di diventare contro testimonianza rispetto alla prospettiva che Gesù nel suo vangelo ci mette di fronte. Anche nel vangelo di oggi appare evidente che Gesù, che avrebbe potuto benissimo frequentare la gente che conta, lo troviamo immerso nella gente che non conta. E’ stato bello come il nostro vescovo, quel giorno, per sfebbrarci, ci abbia portato subito l’esempio di S. Francesco prima e di Madre Teresa poi, persone che se hanno stretto legami, li hanno stretti con i poveri. |