Omelia (15-02-2009) |
Paolo Curtaz |
Dolore e scogliere Il sole squarcia le nubi e dipinge di mille colori le onde del mare in burrasca che si infrangono sulla costa frastagliata di Levante. All’orizzonte si staglia il promontorio di Portofino. La temperatura è mite e lungamente poso il mio sguardo sulle mimose in fiore. Socchiudo gli occhi e mi assaporo ogni secondo di sole. Il mio corpo sembra risvegliarsi dal più lungo inverno vissuto finora. Capisco gli inglesi che, alla fine dell’Ottocento, scendevano a svernare qui sulla riviera quando, mi giura un vecchio del paese, si coglievano le mimose all’epifania. Mi ci voleva un po’ di mare, ho lasciato casa, ieri, che ancora nevicava ad accumulare altra neve su quella ormai assestata. Quando l’inverno non vuole saperne di finire, allora è bene cercarsi qualche ora di primavera da un’altra parte. Stonature È difficile, oggi, parlare del vangelo. Difficile, perché il vangelo di oggi parla del dolore. Difficile perché il dolore, sempre evitato, nascosto, perso nell’oblio delle vite private, apre tutti i telegiornali, diventa dibattito pubblico, opinione politica, guerra di parole. Difficile perché il dolore, sempre osceno, sempre impudico, sempre guardato da lontano, con timore e ansia, ci viene sbattuto in faccia per obbligare a schierarci. Da giorni mi dico che non voglio entrarci, che voglio stare in silenzio a pregare. Non apro le tante mail inoltrare da amici rispetto al caso di Eluana, sento tanta violenza in tutto ciò che vi si dice, anche nelle buone intenzioni di chi difende le proprie opinioni, nell’uno e nell’altro schieramento. Scusate, per me è un periodo così, un po’ eremitico, un po’ ermetico. Mentre penso e ascolto il mare, vedo Gesù che accoglie il lebbroso. Ogni lebbroso. Cristi crocifissi Nella vita di ognuno di noi il dolore è presente. Ogni uomo ne è travolto, quotidianamente. Se discepolo, di più. La morte improvvisa di una sposa, la malattia di un bambino, il lutto che decima una famiglia, sono esperienze che, quando bussano alla porta, sminuzzano la fede con una lametta, facendola sanguinare e, spesso, spegnendola. Le parole diventano vuote, il volto di Dio offuscato, le gestualità prive di significato e di forza consolatrice. Quando ero giovane pensavo, ingenuamente, che al discepolo la sofferenza fosse risparmiata o, almeno, attenuata. Ma se Dio stesso è stato provato dal dolore, perché mai la mia vita dovrebbe esserne esente? I ragionamenti che maldestramente tentiamo di opporre al non-senso del dolore rischiano di essere esercizi vuoti di retorica e di pietismo, dimenticando l’immensa lezione della Scrittura che rifiuta di dare una risposta univoca alla sofferenza del giusto. Molti percorsi sono stati individuati nello snocciolare dell’esperienza religiosa di Israele: dalla sofferenza come una "punizione" di Dio per i peccati commessi, alla sofferenza come strumento di prova per raffinare la propria fede. Altri percorsi, nel corso della storia, li ha aggiunti il cristianesimo, a volte con intuizioni profonde e ispirate, più spesso con riflessioni superficiali, prive di misericordia. Certo, soffriamo, come gli alberi che perdono le foglie, come gli stambecchi che sentono la morte avvicinarsi, come il ciclo delle stagioni; siamo animali, perché dovremmo essere esenti dall’universale legge del cambiamento che regola l’Universo? Eppure l’uomo è l’unico essere vivente che si pone domande sulla sua vita (e sulla sua morte). Certe risposte, poi, ci lasciano ancora più perplessi. Bucce di banana Modi di dire, ovvio, che diamo per scontati, ma che negano il volto del Dio di Gesù. «Dio ci mette alla prova, facendoci soffrire». Cioé: visto che la sofferenza è inevitabile, taglio il braccio a mio figlio, così cresce affrontando da subito il dolore... «Dio prende con sé sempre i migliori». ho sentito dire da un tale, commentando la morte di una giovane vita. Cioè: mi comporto malissimo, faccio lo sciagurato, così almeno Dio mi lascia vivere fino a ottant’anni! No, amici, pietà. Non sono l’avvocato difensore di Dio, non so dare risposte, diffido di chi me le vuole rifilare, di chi usa la verità assoluta come si inzuppa il biscotto nel caffelatte... Non abbiamo bisogno di risposte, se Dio venisse e facesse una conferenza stampa in cui spiegasse la ragione della sofferenza, non avrei, comunque, nessuna soddisfazione. Io non voglio risposte: voglio non soffrire. Rabbia La Parola di oggi ci illumina: Gesù chiede al lebbroso guarito il silenzio. Non vuole passare come un guaritore, come un santone, certo, ma vuole anche indicarci il silenzio come unica strada per riflettere sul dolore. Dio tace, di fronte al dolore, e lo porta con sé, lo salva, lo riempie di condivisione. Gesù non dona nessuna risposta al dolore, lo condivide con passione. Le nostre Bibbie non hanno avuto il coraggio della traduzione letterale, e noi troviamo un blando sentimento di "compassione" che Gesù rivolge al lebbroso. No: Gesù, letteralmente prova rabbia, stizza irrefrenabile verso il male, perché vede in esso la vittoria del nemico. La vita è dolore, concludono in molti. La vita è dolore, concludeva il Buddha, indicando nel distacco dalle passioni l’unica soluzione per non soffrire. Gesù propone nella solidarietà condivisa l’alternativa. Un dolore condiviso e redento ci rende autentici, dona forza e speranza, mantenendo intatto l’aspetto misterioso (misterico) del dolore del mondo. Gesù vuole toccare il lebbroso che tutti evitano. Porta su di sé la lebbra. La assume, la salva. Non so se mi basta, ma questo gesto mi scuote nel profondo. Non so se Eluana volesse vivere così, non so cosa porta suo padre a fare questa battaglia. Oggi, davanti a queste onde, vorrei potere portare il dolore, per alleviarglielo. (Lo so, ne ho a sufficienza del mio, ma mi metto nei loro panni). O dir loro: c’è un Cristo (c’è), che vi vuole toccare. Testimoni Davanti al mistero del dolore, Gesù non dona risposte, ma soffre, amando. Non molto, ma uno spiraglio lo apre. Il dolore dell’uomo è un dolore che Dio condivide e assume. E salva. E, fra noi, possiamo, vivere aiutandoci a portare i dolori. (O sarebbe già molto non provocarli). Leggendo questa pagina, mi è venuto in mente padre Damiano de Veuster che nel 1873 sbarcava a Molokai, vicino alle Hawaii, un’isola in cui venivano rinchiusi i lebbrosi (seicento!), isola in cui la violenza e la depravazione erano seconde solo all’inumanità della malattia. Padre Damiano morì a Molokai, facendo rinascere la dignità dei lebbrosi, dando loro fede, speranza, feste, un cimitero, il canto (!), affetto, Cristo. Costretto a confessarsi urlando i propri peccati ad un confratello che li ascoltava da una barca, guardato con fastidio dai suoi superiori che lo consideravano un eccentrico, padre Damiano morirà di lebbra dopo aver trascorso sedici anni a restituire dignità ai lebbrosi di Molokai. Sulle pagine della stampa internazionale, dopo la sua morte, finirà un osceno articolo di un polemista inglese, che insinuava l’idea che la lebbra padre Damiano l’avesse contratta con rapporti sessuali, facendo diventare un truce personaggio il santo dei lebbrosi. Letto l’articolo, dal suo letto di malattia (aveva la tubercolosi), lo scrittore Stevenson, di fede anglicana, (L’isola del tesoro, Dottor Jekill e mister Hyde) inviò una lettera aperta a tutti i quotidiani inglesi dicendo che chi oltraggiava la memoria di padre Damiano "era rimasto immerso ingloriosamente nel suo benessere, seduto nella sua bella camera (...) mentre padre Damiano, coronato di glorie e di orrori, lavorava e marciva in quel porcile, sotto le scogliere di Kalawao". Sorrido, ora. I bambini mi stanno chiamando, insieme ai miei amici scendiamo sulla scogliera, per vedere il mare da vicino. |