Omelia (15-02-2009)
Marco Pedron
La sorgente pura

Il vangelo di oggi riporta lo stupendo incontro tra Gesù e un lebbroso. Per noi è difficile da capire perché non comprendiamo cosa volesse dire essere lebbrosi a quel tempo. Sostanzialmente si era dei morti viventi. Nessuno di noi è lebbroso (anche se in varie parti del mondo continuano ad esserci lebbrosi e a morire di lebbra). Eppure noi ci possiamo pienamente ritrovare in quel lebbroso.
La lebbra è una malattia della pelle. La pelle è l’organo di relazione per eccellenza: mette in contatto l’esterno con l’interno e l’interno con l’esterno.
Caratteristica della pelle è il contatto: tutti noi conosciamo il bisogno di contatto, di essere accarezzati, abbracciati e toccati. A volte ne abbiamo paura, a volte, per i fatti della vita, abbiamo imparato a fuggirlo e ci dà fastidio, a volte lo evitiamo perché ci ricorda contatti violenti (le abbiamo prese) o sporchi (siamo stati toccati in maniera non pura, non gratuita). Ma tutti noi abbiamo il bisogno di essere toccati e accarezzati.
Negli orfanotrofi i bambini pur essendo accuditi morivano. Perché? Perché non erano toccati e accarezzati. Hanno fatto vari esperimenti: le scimmiette preferivano un pelouche scimmia-madre caldo ma che non allattava ad uno freddo che dava latte. L’amore, il calore, l’essere toccati (il cibo del cuore) è ancora più importante del cibo fisico.
Senza contatto un animale in natura muore. Perché se non è a contatto con la madre, se è lontano da lei, non ha possibilità di vivere: muore di fame o più facilmente viene catturato da un predatore. Per questo il contatto rassicura. Quando qualcuno ti abbraccia ci si sente al sicuro: "Ci sono io; qui sei al sicuro; ti proteggo io, non aver paura; qui non ti può succedere nulla di male". Figuriamoci per il cucciolo umano, che è un parto prematuro (per esistere i cuccioli degli altri animali non hanno così bisogno della loro madre come invece i bambini).
Quando un bambino è toccato si sente al sicuro, protetto: non ha paura e non vive l’angoscia. Ma quando ciò non avviene allora sente un’angoscia tremenda enorme e si sente perso. E piangerà finché non ce la farà. E quando non ce la farà più, disperato, smetterà. In quel momento l’angoscia (della morte) si inscrive dentro di lui.
E non bisogna dimenticare che tutti noi siamo sempre un po’ bambini. Quando si sta male, invece di tante parole, un abbraccio solleva e aiuta più di tutto il resto. Il guardarsi negli occhi (contatto oculare) può esprimere l’amore e la profondità più di mille parole. Il tenersi per mano, il darsi la mano, dice la presenza dell’altro più di tutte le sue rassicurazioni. Il tenere in braccio un bambino gli permette di dormire e di abbandonarsi al sicuro. L’essere accarezzati nel capo ci rilassa, ci distende e ci fa sentire amati e voluti per quello che siamo. Un massaggio ai piedi o al corpo ci può far ritrovare il benessere, l’armonia e scarica le tensioni.
Eppure c’è stato un tempo in cui si diceva: "Il corpo è male; il corpo è peccato; state attenti, evitate di toccarvi!". E ogni contatto sembrava essere sempre una proposta sessuale. Ma perché mai Dio ci avrebbe dato un corpo allora? E perché lui stesso si è fatto corpo? Basta leggere il vangelo: nella cultura del tempo, molto più moralista della nostra, dove non ci si poteva neppure sfiorare in pubblico e dove ogni tipo di contatto era vietato e impuro, cosa fa Gesù? Lui tocca le donne e le abbraccia; tocca le persone ammalate e i lebbrosi (cosa inaudita per quel tempo: voleva dire contagiarsi!); accarezza i bambini, tocca gli occhi dei ciechi e le orecchie dei sordi, prende per mano i paralizzati e stende le mani sul capo delle persone. Gesù stesso si fa toccare dai lebbrosi, dai malati e dalle donne; anche dalle donne di assai dubbia moralità come quella che gli lava i piedi con le lacrime o quella che lo unge.
Ma il contatto è decisivo per un altro motivo (il contatto in realtà ha molte funzioni, tra cui quella ad esempio di sviluppare le sinapsi cerebrali!). Quando tu mi tocchi io mi percepisco, mi sento. Quando la madre accarezza il figlio, senza fretta e con partecipazione (altrimenti è spolverare!), il figlio sente di esistere, di esserci, sente i suoi confini e i suoi limiti. Finché la madre lo tocca il bambino si sente: "Esisto, ci sono!; lei è lei e io sono io". Se un bambino non è toccato avrà grossi problemi di identità: non sa chi è, non conosce i suoi confini, non sa distinguere tra sé e gli altri (non saprà difendersi o viceversa invaderà gli altri).
Quando in un clima di silenzio, presenza, consapevolezza, le persone si incontrano e si toccano (si accarezzano, si sfiorano o semplicemente si danno una mano), il contatto fa uscire tutto quello che c’è dentro: paura, traumi, dolori, sofferenze, ricordi, ecc. La mente (a volte) mente ma il contatto (e il corpo) non mente. Perché il contatto ti "contatta", ti mette in contatto con ciò che tu hai dentro, con ciò che c’è dentro di te. E questo può far paura, può far scappare, può darci un fastidio tremendo. Allora diciamo: "Non è per me! Sono cose sporche! Non ne ho bisogno; non mi interessa; mi dà fastidio". La verità è che ne abbiamo paura. Perché l’amore, il primo amore, passa e si manifesta così. Così rischiamo, immersi nell’amore, di morire d’amore e di mancanza.

La prima lebbra, allora, è non essere stati toccati.
Un uomo ha perso la madre alla nascita. Cosa può fare un bambino per non sentire tutto questo? Non può parlare, non può andare in terapia, non può rielaborarlo, non può fare niente di niente. L’unico modo che ha è non sentire più. E’ un uomo buono, a cui va bene tutto, non si arrabbia mai, non è mai triste, non si entusiasma più di tanto: in realtà è solo distaccato.
Una donna, quand’era bimba, fin dai tre mesi, la madre la lasciava ai nonni e lei andava a lavorare. La bimba si è sentita persa e ha compensato questo vuoto con la seduzione. Lei seduce gli uomini (diciamo che ne fa collezione). Dentro di sé dice: "Ti conquisto io così starai con me". Ma quando li ha conquistati non sa che farsene perché il "buco" è molto più lontano.
E cosa fa il corpo quando non si è toccati? Il corpo fa un ragionamento molto semplice: "Se nessuno mi tocca allora vuol dire che sono solo (che l’altro non c’è altrimenti mi toccherebbe). Ho paura, sto soffrendo, e per non sentire questa separazione mi desensibilizzo". Allora sulla pelle emerge la psoriasi, la vitiligine, l’alopecia, l’eczema, la dermatite e tutte le malattie della pelle: "C’è una separazione che è avvenuta e che mi ha fatto (o mi fa) male. Per non sentirla (la pelle è l’organo del sentire sensoriale) mi desensibilizzo". Il corpo si desensibilizza, non sente più. E’ un modo per non sentire più ciò che fa male; si fa', come dire "la pelle dura". Il problema è che così ci si distacca da sé e ci si allontana dalla vita che si ha dentro. E nel tempo si diventa freddi, insoddisfatti, vuoti o apatici: nulla ci tocca più, nulla ci fa realmente felici e nulla raggiunge per davvero il nostro cuore.

Ma la lebbra era anche una malattia sociale. Chi aveva la lebbra era "un morto vivente". Il lebbroso veniva escluso e doveva vivere fuori dal paese e lontano da tutti. Il lebbroso quando qualcuno gli si avvicinava doveva gridare: "Lebbroso, lebbroso" e suonare una campana per segnalare la sua presenza. Si credeva infatti che fosse una malattia trasmissibile. Non solo si era malati ma era anche una vergogna e non si poteva essere toccati da nessuno.
Lebbra è quell’etichetta, quella cosa che ti si appiccica addosso e che non riesci più a toglierti. C’è la lebbra di chi non si sopporta: non sopporta il proprio fisico, lo vorrebbe diverso (più magro, più formoso, più muscoloso); chi non sopporta di arrossire, di avere le mani rugose, il volto pieno di brufoli o di rughe, di far fatica ad esprimersi o di essere balbuziente, ecc; c’è chi non sopporta il colore della propria pelle; chi non sopporta il proprio carattere; chi non si sopporta perché quando si guarda non trova niente di importante nella sua vita.
Una ragazza (moda in crescita tra le "famiglie in"), diciottenne, ha chiesto di rifarsi il seno. Quanta lebbra di non accettazione deve avere addosso per arrivare a ciò? E chi non accetta il proprio corpo quanta lebbra deve avere?
In un incontro ho chiesto ad una persona: "Come ti percepisci, come ti senti?". E lei: "Un bidone di spazzatura!". Quanta lebbra, odio per sé, dev’esserci in una tal persona?
Due ragazzini adottati sono gli unici ragazzi di colore nella loro scuola materna. Chiedono sempre alla mamma: "Mamma quand’è che diventiamo bianchi come tutti gli altri?". Dire ad un ragazzino così "sporco nero" è ucciderlo, è provocargli all’istante la lebbra.
C’è la lebbra di chi ha sbagliato e non riesce più ritrovare la propria dignità. Alcuni genitori non accetteranno mai che i propri figli abbiano divorziato o si siano separati. Si sentono offesi, traditi, svergognati. In qualche modo l’errore del figlio viene vissuto come proprio. Ma il figlio si sente abbandonato, rifiutato, non accettato, senza possibilità di redenzione. Un padre ha detto a sua figlia: "Per me non sei più mia figlia!". E’ una sentenza di morte.
C’è la lebbra di chi non è sopportato: chi viene escluso dagli altri fratelli; chi è messo in disparte nelle scelte lavorative; chi è disprezzato; chi è preso in giro; chi è oggetto di derisione per il suo fisico; chi viene umiliato e chi viene escluso.
C’è la lebbra della vergogna: quando si viene additati; quando si ha sbagliato e le persone non fanno altro che rimarcarti e ritornare su quell’errore; la lebbra di chi non si perdona, di chi confessa sempre la stessa cosa da anni, di chi si sente sempre colpevole; c’è la vergogna di chi si sente inferiore perché non ha studiato o perché non è fisicamente bello e attraente. In un paese c’è un cognome che per la gente vuol dire che sei pazzo, da ospedale psichiatrico. Avere quel cognome è un destino, meglio una condanna (perché per la gente sei così e basta).
Chi di noi non ha qualche lebbra? Chi di noi non può ritrovarsi in quell’uomo lebbroso?

Cosa avviene fra Gesù e il lebbroso? Guardiamo bene. Innanzitutto c’è il lebbroso. L’uomo si butta in ginocchio e lo supplica: "Se vuoi puoi guarirmi!" (1,40). Da una parte l’uomo sente che non può continuare a vivere così e dall’altra che da solo non ne viene fuori. Per questo si rivolge a Gesù e gli dice: "Ho bisogno di aiuto".
Buttarsi in ginocchio è smettere di resistere, piegare le ginocchia e riconoscere di aver bisogno di qualcuno. Perché chi non si crede malato non può guarire; chi si crede non malato non va dal medico. Allora il primo movimento è: "C’è un problema e ho bisogno di aiuto".
D’altra parte l’uomo chiede di fare tutto a Gesù. Infatti gli dice. "Se vuoi puoi guarirmi". E’ tipico: uno sta male va dal medico e gli chiede: "Mi dia la medicina giusta che mi tolga il male". La variante spirituale di questa cosa è: "Che cosa devo fare per stare meglio?". E’ ovvio: uno sta male; non vuole più star male e cerca la via facile e veloce per uscirne. Ma non funziona così.

Poi c’è Gesù. Tutto avviene perché Gesù prova qualcosa di forte ed intenso. "Mosso a compassione" (1,41). Il verbo è splanchnizomai ed è l’amore femminile, l’amore che ti tocca dentro, che ti "fa male la pancia", viscerale. Splanchnon sono le viscere. Le viscere, per gli antichi, sono il luogo dei sentimenti vulnerabili: l’amore, la misericordia, la compassione, la tenerezza, la dolcezza.
Quando un uomo è rifiutato da tutti, di cos’è che ha bisogno per prima cosa? Di essere amato. Cioè: di essere accettato, accolto, di poter sentire che c’è qualcuno a cui non fa schifo e che non lo rifiuta. Ed è difficile far passare questo. Perché quando uno è rifiutato da tutti, si sente un rifiuto e metterà in atto delle strategie che confermino questa cosa. Lo sanno bene i genitori dei ragazzi adottati: questi ragazzi, già rifiutati dai genitori naturali, mettono veramente alla prova i genitori adottivi. Come se dicessero: "Tanto lo so che prima o poi mi rifiuterai anche tu". Allora lui ti dà contro, ne combina di tutti i colori per vedere se anche tu farai come gli altri. E’ difficile tenere. Ma se si tiene, allora lui si sente veramente amato al di là di ciò che fa. E’ la salvezza.
L’amore salva: nient’altro. Soltanto quando si è davvero amati, soltanto quando si sente la stima su di sé, si può credere di avere un valore, di non essere schifo e che può valer la pena di vivere al propria vita. De Andrè cantava: "Dal letame nascono i fiori". Sì l’amore è capace anche di questo.
Gesù guardava quest’uomo, che tutti evitavano e rifiutavano, con occhi diversi: "Io credo in te; io so che in mezzo al tuo schifo c’è una perla, c’è una rosa, c’è qualcosa di grande. Sei così perché deformato dal dolore della vita, ma io so e vedo la tua bellezza. Voglio che tu possa tornare a risplendere".
Lo sanno bene i preti, gli educatori, gli psicologi, i maestri, gli insegnanti: se tu non credi che l’altro possa diventare migliore non lo diventerà. Bisogna aver la fede vera e profonda che lui possa uscirne, che lui possa migliorare, che lui possa essere diverso. Se lui la sente, è fatta. Ma se tu non ci credi, non c’è possibilità.

Il sentimento di Gesù si trasforma in azione: "Stese la mano" (1,41). Ekteino vuol dire proprio distendere: Gesù lo ama (sentimento, splanchizomai) e il suo amore si fa azione (ekteino), lo tocca.
Immaginatevi quest’uomo: tutti lo rifiutavano, nessuno lo voleva, tutti gli stavano alla larga, tutti dicevano: "Tu sei peccatore per questo sei ammalato; tu non hai speranze" e Gesù, il maestro, sfidando la religione che diceva che toccare un lebbroso voleva dire contrarre l’impurità, lo tocca, distende la mano e lo incontra. Dentro di sé quest’uomo avrà iniziato a dire: "Ma allora non sono sbagliato del tutto; ma allora anch’io posso essere amato; ma allora non faccio schifo; ma allora posso vivere!".
E Gesù lo tocca. Apto (toccare) vuol dire toccare nel senso di afferrare, di avere un contatto (anche intimo). Immaginatevi la scena. Gesù lo abbraccia e l’uomo gli dice: "No, no, non farlo; sono un peccatore, faccio schifo, ho la lebbra, non toccarmi, non sono degno, non lo merito!". E Gesù: "Sì che lo meriti, sì che ne sei degno. Io non ho paura della tua malattia". L’uomo tenta di scappare e Gesù lo trattiene e continua ad abbracciarlo.

Poi Gesù gli dice: "Lo voglio, guarisci" (1,41). In greco quel verbo "guarisci" è katarizo che vuol dire essere puro. Il sostantivo (kataros) indica la sorgente pura.
Allora Gesù gli dice: "Sii te stesso: puro, chiaro, schietto. Torna ad essere la sorgente pura di quando Dio ti ha creato. Se getti via da te il rancore, l’amarezza, la vergogna, il rifiuto che hai subito, sei te stesso".
Allora cos’è guarire per Gesù? Guarire per Gesù è essere se stessi, cioè quella forma, quell’idea che Dio, la Vita, aveva in testa per noi e che i fatti e le situazioni di vita hanno deformato, alienato, distrutto.
Possiamo dire: "Sei un’auto? Fa’ l’auto! Sei una bicicletta? Sii la bicicletta! Sei un treno? Fa’ il treno! Sei una penna? Scrivi! Sei la pioggia? Bagna! Sei il sole? Illumina e riscalda!". Ognuno sia ciò che è; ognuno sia la forma che Dio aveva in testa quando ci ha pensati. Allora fare la volontà di Dio non sarà nient’altro che essere pienamente se stessi; ed essere pienamente se stessi non sarà altro che fare la volontà di Dio.
Le persone sono infelici perché non vivono la propria forma: vogliono essere qualcos’altro che non sono, vogliono essere dell’altro. Neppure sanno chi sono e cercano di vivere qualcosa che non sono. Ma non si può chiedere ad un’auto di scrivere o ad una penna di correre. E’ stupido! L’auto sarà se stessa (e quindi felice e realizzata) solo se farà l’auto. E la penna deve fare la penna!
La felicità è fare ciò per cui si è fatti. Una penna sarà felice di scrivere e un’auto di correre: è fatta per questo! Ma se chiediamo altre cose: 1. non riusciranno a farlo e 2. la loro esistenza è vana, non realizzata. Perché se uno non vive la propria forma si sforma, si deforma.
Molte persone chiedono: "Cosa devo fare?". "E che ne so io!". Purtroppo in giro c’è molta gente che ha un sacco di risposte a questa domanda, costringendo la gente a vivere vite non proprie, vite degli altri. Oppure guardano a destra o a sinistra per vedere cosa fare o cosa essere. Ma è inutile guardare lontano. L’unica vera domanda è: "Chi sei tu?". Sei un’auto? Fa’ l’auto! Sei una penna? Sii penna. Sii te stesso e sarai puro. Accetta ciò che sei e vivilo: è la sorgente della vita, della felicità e del tuo esserci.

La risposta di Gesù è meravigliosa: "Lo voglio, guarisci" (1,41). Osservo varie cose.
1. Gesù non teme di sporcarsi le mani e lo tocca. C’è una donna: lo psichiatra le ha detto che aveva una forma di psicosi maniacale importante (che per uno psichiatra vuol dire: "Non ne puoi uscire") e la dava psicofarmaci; il suo terapeuta le faceva una terapia di sostegno (per tirare avanti) e il suo prete faceva esercizio di bontà nell’ascoltarla in confessione ogni settimana. Nessuno di loro credeva che avrebbe potuto uscirne. Ma un giorno di quella donna si innamorò un uomo. Lui credeva in lei. Sapeva che non aspettava a lui salvarla, ma lui cominciò ad amarla. Si sporcò le mani, si lasciò coinvolgere e l’amò. Lui cominciò ad amarla e lei cominciò a guarire.
A Madre Teresa un’altra suora un giorno le disse: "Madre perché i miei ammalati non trovano la pace come qui da te?". "Perché io non lavoro per portargli la pace; io la trovo con loro". Sporcarsi le mani vuol dire: "Mi metto in gioco con te e ti accompagnerò nella tua strada". E’ l’amore vero.

2. Ma la risposta di Gesù è meravigliosa per un altro motivo. Gesù dice: "In te c’è una sorgente pura". Le persone hanno perso il senso della propria origine e del proprio essere.
Tu ti guardi allo specchio e ti dici: "Faccio schifo!". "Vero, ma non è del tutto vero!". In certi giorni pensi: "Non ce la farò mai! Non posso farcela!". "Sbagliato! In te c’è tutta la luce per risplendere". Tu guardi un uomo e dici: "Lo si dovrebbe uccidere; lo si dovrebbe eliminare, uno così! Con quello che ha fatto!". "Vero, ma non del tutto!". Perché se tu guardi più in profondità, se tu hai il coraggio di scendere, potrai vedere che c’è una parte, anche in lui, che non è deformata, corrotta, distrutta. Guardi questo mondo e dici: "Che mondo di ...". "Sì vero, ma non del tutto". Perché la luce è sepolta, racchiusa, anche in questo mondo a volte così terribile e disumano.
La sorgente di luce che c’è in noi può essere spenta, offuscata, coperta, ma non distrutta. Avete presente una stanza al buio: non si vede nulla. Ma la luce c’è, basta accenderla o tirare su la tapparella. In certe vite la luce non splende mai, eppure c’è (e continuerà ad esserci).
A tutti dico allora: "In te c’è tutta la luce, l’energia, l’amore. Fai contatto con la Sorgente che è in te":
A me, quando mi sembra che tutto vada male dico: "Non è vero! Non è tutto nero, la luce c’è e io andrò a cercarla, e la troverò. Perché la Sorgente Pura è in me".
A tutti quelli che non ce la fanno a contattare la Sorgente: "Anche se la tua vita è nebbiosa, tenebrosa, buia; anche se sei sempre nella notte, sappi che la Sorgente è anche in te". E questo mi fa capire che ogni uomo merita rispetto e onore. Non per quello che fa ma per ciò che è nella sua essenza. Posso condannare quello che fai, rifiutarlo o non accettarlo; ma so che nel nostro profondo vive e sgorga la stessa Sorgente Pura. Lì sei mio fratello; lì ogni uomo è mio fratello.
In questo tempo di ripiegamento degli stati nazionali su di sé (causa crisi economica), di chiusura di certe grandi religioni (per paura dell’evoluzione e dell’altro), di mancanza di grandi riferimenti, c’è bisogno di vera spiritualità: "Nel profondo, tu sei mio fratello e tutti siamo figli Suoi. Lui, la Sorgente vive in te e in me".

3. Gesù poi gli dice: "Io lo voglio! E tu?". E’ per questo che Gesù non poteva guarire tutti. A casa sua non guarì praticamente nessuno perché gli erano diffidenti: non volevano.
Dio non può niente se tu non lo vuoi. Dio può tutto (e quindi anche tu) se tu lo vuoi. Mi potresti chiedere: "E perché la gente non vorrebbe guarire? Tutti lo vogliono!". "Lo dici tu!".
Guarire vuol dire appunto "rendere puro, chiaro" (1,41), cioè portare luce nel buio ed eliminare l’impuro. Sì tutti vogliono guarire ma non tutti sono disposti ad accettare le conseguenze della guarigione. Perché non si può guarire senza tras-formarsi. Hai una forma, che non è la tua, non sei tu, e guarire vuol dire perdere quella falsa forma che ti ha de-formato per tras-formarti nella tua vera forma. Le persone vorrebbero guarire ma non cambiare idee, né certezze, né pensieri, né modo di vivere. Ma allora non si può guarire! Perché da dove viene la malattia viene anche la guarigione.
Se come vivi non guarisci, vuol dire che devi cambiare, perché questo modo ti ammala. Ma se non vuoi cambiare come fai a guarire? "Io lo voglio. E tu?".

Pensiero della settimana
Due uomini stavano litigando. La discussione era:
"Una fetta di pane cade con il lato imburrato sopra o sotto?".
Il primo disse: "Con il lato imburrato sotto, ovviamente".
Il secondo: "Con il lato imburrato sopra".
"Facciamo la prova", disse il primo, "e vedrai che ti sbaglierai!".
Così la fetta di pane fu ben imburrata e lanciata in aria.
Ricadde con il lato imburrato sopra.
"Ho vinto!", disse il secondo.
"Solo perché io ho commesso un errore", disse il primo.
"Quale errore?", riprese il secondo.
"Ovviamente ho imburrato il lato sbagliato", rispose il primo.

L’uomo che litiga non cerca la verità
ma la conferma delle proprie convinzioni.