Omelia (01-03-2009) |
padre Gian Franco Scarpitta |
Passare per il deserto e poi uscirne Gli Israeliti sperimentano prima il deserto con le sue insicurezze e le sue privazioni, per poi convincersi dell’inutilità del peccato e della tracotanza dell’uomo e della grandezza di Dio che ama e riconcilia. Infatti la disavventura del popolo nella steppa è avvincente e multilaterale, piena di esperienze, imprevisti, arrendevolezze e perseveranze alterne in uno stato nel quale ci si trova soli, molte volte privi di sostegno e di stabilità anche materiale, con il solo appoggio morale di Dio e della solidarietà reciproca, in preda all’indigenza e alla fame, che fanno rimpiangere i tempi della schiavitù dell’Egitto: lì almeno c’erano cipolle e cibi meschini di cui nutrirsi, anche se si doveva assitere ai lauti pasti dei grandi signori e sia pure nella ristrettezza ci si nutriva in modo da reggersi almeno in piedi, ora invece non c’è più neppure alimento povero e precario, per cui si mette in dubbio perfino la sopravvivenza. Il grande intercessore Mosè invita alla calma e alla fiducia nel Signore, che non mancherà di provvedere egli stesso al sostentamento di tantissima gente che il libro dei Numeri stima intorno alle 650000 persone e garantisce la futura ricompensa proporzionata agli attuali sospiri; ma il deserto è sempre il deserto, le necessità sono sempre più impellenti e improcrastinabili, per cui le insistenze e le infedeltà del popolo si accrescono ogni giorno di più, suscitando a più riprese la correzione divina. Tuttavia, in questa continua lotta senza esclusione di colpi fra i richiami di Dio e l’infedeltà dell’uomo, Israele fa esperienza appunto di una dimensione inaspettata e frustrante che è il deserto. Con questo termine si intende la situazione di smarrimento personale ma anche di privazione e di nullità che portano a riconoscere la nostra insufficienza e la necessità di dipendere da Dio come pure la considerazione che nulla l’uomo può senza il sostegno che gli deriva dall’alto. L’esperienza del deserto, affinata al digiuno, alla mortificazione e alle lacrime implorative induce così andare oltre noi stessi e a dischiuderci verso Dio nel concreto atteggiamento di preghiera e di filiale devozione perché se tutto dipende da Lui, a lui ci si deve affidare in tutto. Ma l’esperienza della precarietà e delle dune è anche occasione per comprendere che noi siamo oggetto del Suo amore poiché Lui non prova nessuno senza una ragione plausibile, senza una motivazione relativa al presente di bene e senza mirare al futuro di gloria definitiva: appunto perché Dio ci ama e vuole recuperarci dal peccato, noi siamo esposti al deserto della prova, del dolore e della sofferenza che non è mai finalizzata a se stessa e proprio l’esercizio costante produce i frutti della virtù e della gioia. Il deserto è quindi occasione della scoperta dell’amore di Dio e della convinzione che cambiare direzione muovendo verso di Lui è conveniente quanto dannoso è allontanarsi da Lui ed eludere il suo richiamo alla riconciliazione e alla gioia. Che cosa ha fatto Gesù nel deserto? A differenza di Matteo e Luca, che su questo racconto sono molto più articolati e lineari, Marco è piuttosto reticente e lascia solo alla nostra intuizione la specificità contestuale dei giorni trascorsi fra le lande di Giuda; tuttavia è molto esplicito ed esauriente quando afferma che a condurre Gesù nel deserto è lo Spirito Santo: ciò vuol sottolineare che le tentazioni di Satana e le varie precarietà di quel tempo ostile e avverso corrispondono al d un piano determinato del Padre che vuole dal proprio Figlio l’immolazione già nella tentazione e sottomissione a quelle forze che lui stesso avrebbe potuto ben dominare. I "quaranta giorni e notti" di fame, miseria e precarietà stanno a significare la preclusione di ogni certezza e di ogni garanzia e forse incutono anche il dubbio sopravvivenza: chi potrebbe resistere a lungo privo dei necessari sostentamenti materiali e delle condizioni atmosferiche ottimali al fisico umano? Chi potrebbe resistere alle intemperie della stesa superficie astrusa e inospitale di quella terra irta di pericoli e insidie anche animali e di imprevisti inaspettati come quello dei predoni? Eppure il deserto è il luogo in cui Gesù affronta e supera ogni prova per ergersi invitto e trionfante, proprio come avverrà nell’ora delle tenebre, quando uscirà vittorioso dal sepolcro, dopo che per opera dello stesso Satana sarà stato consegnato alla morte. Marco ha premura semplicemente di mostrare che il deserto per Gesù non è un pericolo ma è un’occasione propizia che gli consente di sperimentare, nelle limitatezze della carne, il sostegno immancabile di Dio, facendolo sempre più convinto e motivato del suo amore. Ecco perché Marco, dopo aver parlato in poche parole del deserto di Gesù, prorompe improvvisamente con la sua esclamazione: "Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo" che vuole indicare che adesso è il momento favorevole, il tempo propizio (greco pleron) della vicinanza di Dio con il suo popolo, l’occasione unica per sperimentare il Suo amore e la sua misericordia di riconciliazione e di convincersi della veridicità della sua Parola; di conseguenza Gesù ci invita a mutare radicalmente le nostre convinzioni e la forma mentis, a trasformare i nostri propositi e gli intendimenti e i processi culturali e le impostazioni mentali ai fini di cambiare vita orientandoci verso di lui. L’invito che ci viene rivolto è insomma quello della conversione e procede soprattutto dall’esperienza di umiliazione del Figlio di Dio che dopo essere stato definito dal Padre "il prediletto" (=l’amato) ora sceglie di sua spontanea volontà le sottomissioni e le mestizie del deserto e che sperimenta per noi ogni sorta di mancanza morale e materiale per poterci indicare la via migliore per la nostra vita presente e futura. Il deserto delle nostre metropoli o delle nostre case garantite e protette non è paragonabile a quello vissuto da Gesù e prima ancora dagli Israeliti, ma la Chiesa favorisce in ogni caso un luogo nonché un tempo privilegiato in cui l’amore di Dio si sperimenta ugualmente e viene effuso nei nostri cuori per propagarsi verso gli altri; tale è il periodo lituirgico da noi iniziato da pochi giorni, che ci condurrà alla gioia della Resurrezione dopo averci permesso di sperimentalre l'amore di Dio che prende corpo nella nostra vita di insufficienze e di peccato dalla quale siamo chiamati a svincolrci. La Quaresima (quaranta girni) compendia appunto tutte queste garanzie e comporta che troviamo in Cristo la nostra meta per uwcire dal deserto del peccato e della solutudine molto spesso frintesa con il clamore della confusione odierna vuota e meschina. Il tempo che ci si profila si caratterizza come occasione di raccoglimento e di preghiera associate alla pratica dell’ascesi, del digiuno e delle varie privazioni che contribuiscono ad attribuire a noi stessi il giusto valore che è sempre quello di subordinazione nei riguardi di Dio, e soprattutto dischiudono le porte all’amore effettivo verso il prossimo nei gesti concreti di carità e di condivisione. Ma non vale la pena intraprendere il nostro itinerario di scoperta dell'amore di Dio fintanto che non avremo compreso che le rinuncie e le privazioni, il deserto insomma, non sono mai fini a se stessi, ma che hanno di mira l'obiettivo della gioia infinita che ci attende nel Signore risorto. |