Omelia (08-03-2009) |
padre Gian Franco Scarpitta |
In vista della gloria, la parola alla nostra fede. L’episodio del luogo di Morian sul sacrificio di Isacco da parte del padre Abramo non va sottovalutato, perché riguarda una prova davvero consistente e paradossale e chi vi si sottopone merita ammirazione per il grande coraggio e soprattutto per la fede che in questa occasione sa rendere manifesta. . L’olocausto, infatti, era il sacrificio per il quale la vittima animale doveva essere sgozzata e bruciata per intero, in modo tale che non ne restasse se non misera cenere per il giorno seguente; Abramo, immolando il proprio figlio non avrebbe perduto solamente l’affetto più caro che possedeva, fra l’altro ottenuto per un privilegio speciale di Dio all’età di cento anni (Gen 21, 5), ma avrebbe anche rinunciato alla paternità della promessa che Dio gli aveva fatto in precedenza, di essere padre di una lunga discendenza e di una moltitudine di popoli: aveva avuto la garanzia divina di una grande discendenza, e adesso, perdendo il proprio figlio vi avrebbe dovuto rinunciare. Prova davvero schiacciante quella che Abramo accetta! Sacrificare il figlio primogenito era tipico anche dei riti pagani dell’epoca tutte le volte che si voleva fondare una città, ma non era questo il caso di Abramo, che acconsente di uccidere l'amato Isacco non per ottenere un dominio, ma per perdere eventualmente anche quello che in precedenza gli era stato promesso. Qual è l’atteggiamento di questo grande personaggio, che di fatto verrà poi lodato da Paolo come simbolo della fede indiscussa e incondizionata (Rm 8) e ancora adesso è vincolo di unione fra cristiani, ebrei e mussulmani? E’ opinabile che la sua reazione sarà stata quella della disperazione e dello sbigottimento e anche della rimostranza di fronte a una simile richiesta insolita e assurda da parte di Dio; eppure non esita a compiere una levataccia mattutina per recarsi nel luogo indicato e posizionare il proprio figliolo nella maniera con cui si immolavano le vittime del sacrificio. Ma proprio mentre la mano assassina sta per colpire le membra esili del fanciullo, un messaggero di Dio (un angelo) lo trattiene da quel gesto salvando la vita ad Isacco e facendo trovare miracolosamente al fedele Abramo un capro da usare come sacrificio per il Signore. Indipendentemente da quanto sarebbe successo dopo, Abramo non esitava a immolare il suo unico e prezioso figlio, pur essendo ben conscio delle rinunce che ne sarebbero derivate. Il figlio ottenuto, dicevamo, in tarda età, quando la moglie Sara aveva ormai concluso fosse impossibile avere prole e lo stesso Abramo appunto per la sua sterilità aveva già fatto ricorso alla schiava Agar... Il tutto spiega le potenzialità della fede in Dio, per la quale Abramo verrà ricompensato lautamente in futuro e che ancora adesso qualificano questo speciale personaggio biblico come paradigma della fede libera e incondizionata che è sempre apertura spontanea e fiduciosa nella volontà di Dio. Anche nel partire dalla propria terra per un paese lontano e sconosciuto, Abramo aveva espresso fede e apertura verso Dio, come pure accogliendo i tre visitatori alle querce di Mamre (Gen 18) riconoscendo in essi il Signore con i suoi angeli, sicché può essere a ragione colto quale monito esemplare della vera fede che non accetta condizionamenti, retoriche e limitazioni di sorta ma che vuole fiducia, decisione e immediatezza anche nelle situazioni di eroismo a cui la vita ci costringe. La fede ottiene sempre la sua ricompensa e anche nella misura proporzionata al valore delle rinunce che essa comporta, specialmente quando su di essa (come dice Moltmann) si fonda la speranza, ossia la fiduciosa attesa del Signore e dischiude le porte alla carità e all’amore al prossimo, che ne sono l’esternazione effettiva. La fede non è un compromesso con Dio e non comporta baratti o interscambi commerciali né può pretendere soluzioni immediate ai problemi sulla linea degli incantesimi e delle magie; essa comporta l’affidamento esclusivo e fiducioso a Dio, riconosciuto come Padre che non si dimentica dell’uomo e che lo segue costantemente orientandolo nel proprio cammino; essa comporta la fiducia in Dio e la consolazione anche nelle prove più rigide e schiaccianti, nonché la fuga da ogni timore quando ci si debba "lanciare con coraggio" per il Signore. La fede non è la prerogativa del solo credere. Se fosse solo questo, ebbene, ci avverte Giacomo, anche i demoni credono e rabbrividiscono. Essa riguarda invece un aderire al mistero incomprensibile perché esso è appunto tale e affidarvisi senza esitazioni e senza riserve consci soltanto che siamo oggetto d'amore da parte di Qualcuno. La fede è quindi un donarsi a Dio, un concedersi libero, spontaneo e disinvolto che non conosce ostacoli né smentite, ma che anzi si consolida nell'assillo delle prove e delle disfatte, rinnovandosi e motivandosi continuamente. Se noi manchiamo di fede, Dio non manca di fiducia nei nostri riguardi, anzi potremmo dire che Dio al contrario non esita per l’uomo ma perde tutto se stesso in vista della sua causa e della sua salvezza. Infatti, se Dio ha risparmiato ad Abramo l’uccisione del figlioletto Isacco, Dio Padre non ha risparmiato il suo unico Figlio perché fosse immolato sul patibolo. Non c’è stato, a proposito della croce, alcun intervento improvviso risolutivo, e anzi vi è stata la maledizione della stessa Legge che condannava come maledetto chiunque pendesse dal legno, come pure l’insulto, l’ignominia e il vantaggio del principe delle tenebre che ha avuto in quell’ora la rivalsa su Gesù e finalmente anche l’abbandono del figlio mentre sbiancava sulla croce. Ma se Abramo simboleggia la fede, Cristo è la realizzazione delle promesse di questa fede, il compimento definitivo dell’alleanza e della salvezza nonché della gloria futura che si avrà con la resurrezione. Sul monete Tabor, davanti agli occhi attoniti di Pietro, Giacomo e Giovanni che restano sbigottiti e abbacinati dal fulgore di quelle vesti, Cristo manifesta la sua gloria di Dio invitto superiore alla Legge (Mosè) che lo aveva preceduto e prefigurato dai profeti (Elia) che l’avevano preannunciato e promesso. La gloria di Gesù si manifesta nel fulgore della sua veste candida e smagliante e fonda il senso del suo ingresso venturo a Gerusalemme per essere ucciso sul Golgota: la prova e il dolore sono necessarie perché si realizzi la salvezza definitiva nella resurrezione e anche in questo caso la fede invita a restare indiscussa e a rivalutare se stessa in vita di una gloria definita che è certa anche se ancora lontana. La trasfigurazione è quindi il preludio della Pasqua nel bel mezzo della quaresima perché anticipa la gloria per la quale ci si sta adoprando nelle mortificazioni della conversione e nella lotta per il mutamento della nostra vita, ma è anche un saggio della gioia e della letizia che produce la fede costante e indomita. |