Omelia (08-03-2009) |
don Marco Pratesi |
Possesso o dono? Di fronte alla richiesta di Dio ad Abramo si rimane sconcertati: che bisogno c'era di arrivare a tanto? Come minimo è un Dio esagerato, incomprensibile e contraddittorio (dà e poi richiede indietro); o anche francamente sadico, crudele e sanguinario. Ad Abramo Dio non fornisce motivazioni, non dice "dammi tuo figlio per questo o quest'altro". Deve interpretare la richiesta da solo, sulla base di come conosce Dio. Non sa quello che accadrà. Probabilmente spera che l'agnello arrivi da qualche altra parte (cf. v. 8), ma non parte dal presupposto che questo sacrificio non avverrà. È effettivamente disponibile a sacrificare il figlio. Non sa quello che Dio ha in mente, ma si fida: se Dio chiede qualcosa è per la vita. La Lettera agli Ebrei la intende così: "riteneva che Dio era potente da risuscitarlo anche dai morti" (Eb 11,19). Ha comunque imparato che si può fidare di Dio anche quando non sembra. Non sa "come", ma sa "che": Dio non agisce mai per il male, ma sempre per il bene; non suo (come ritiene la mentalità pagana) ma dell'uomo. Per ognuno di noi si pone ugualmente questa ineludibile alternativa: tenere i doni di Dio come un dono o come un possesso? Il possesso. Non sono disposto a rinunziare in nessun caso e per nessun motivo, nemmeno per Dio (per la verità, per l'amore). Non voglio perché (mi pare) non posso, perché altrimenti sprofondo nella morte, mi manca il terreno sotto i piedi. Dio avversa questo attaccamento ("rode come un tarlo quanto è caro all'uomo", dice Sal 39,12) non in nome di un proprio vantaggio (lo pensa il diffidente che è in me), ma perché produce un'asfissia che uccide sia me che le cose che ho tra le mani. Le cose che vengono caricate del "peso dell'eternità" divengono per ciò stesso soffocanti, e soffocano esse stesse. L'idolatria va a mio favore solo in apparenza: presto o tardi presenta il conto e i guasti emergono. La promessa di Dio rimane infine bloccata quando l'uomo se ne appropria. Il dono. La mia vita è solo Dio, il rapporto con lui. In questa prospettiva posso vivere e respirare, e con me le mie cose. Dio mi domanda di essere libero da tutto, perché solo così posso vivere. Il distacco non è per nulla indifferenza, come Abramo non è affatto indifferente ("il figlio che ami", v. 2). Solo il distacco, anzi, rende possibile l'amore vero. L'attaccamento lo impedisce, perché l'altro è visto in funzione di me, della mia gratificazione, etc. Dio mi comanda di amare il prossimo, non di essergli incollato. In questo spazio aperto la promessa può camminare: dal gesto di fiducia viene sempre benedizione, vita, fecondità per me e per gli altri. Dio risponderà sempre col centuplo (cf. Mt 19,29; Mc 10,30). In sintesi: se arraffo, quello che stringo mi si squaglia in mano; se dono, quello che ho mi viene restituito moltiplicato. Questa è la scelta decisiva: dai fiducia a Dio o no? Molli la presa o no? Nessuno può evitare questa scelta. Nella pasqua di Gesù, Dio Padre è andato fino in fondo a quanto aveva cominciato con Abramo. Il suo Figlio viene sacrificato, e fa della sua morte un dono, luogo di fiducia e di amore. Perciò la croce, di per sé luogo della maledizione, diviene la fonte della benedizione, e l'albero mortifero diviene albero vivificante. Il battesimo è la chiamata a fare come Abramo e come Gesù, divenendo benedizione per noi stessi e per gli altri. Non serve la sterile ammirazione per Abramo "così eroico", che di fatto ci lascia fermi, perché tanto eroi noi non siamo. Si tratta di prendere invece finalmente sul serio il fatto che possiamo fare spazio all'azione dello Spirito di Dio: sarà questa a portarci "come su ali d'aquila" fino a lui (cf. Es 19,4), alle vette dell'amore. Quello vero. I commenti di don Marco sono pubblicati dal Centro Editoriale Dehoniano - EDB nel libro Stabile come il cielo. |