Omelia (08-03-2009) |
mons. Antonio Riboldi |
Gesù prepara i Suoi alla Sua passione Come è davvero prezioso questo tempo di austerità, che invita tutti noi a smettere i panni di una dannosa ricerca di felicità nel benessere, che alla fine si rivela un baratro di sofferenze, per ritrovare nella preghiera, nell'ascolto di Dio, in una vita morigerata, chi siamo e cosa ci attende, guardando all'eternità. Sappiamo - ed è esperienza quotidiana - che ogni giorno o ogni periodo ci mostra la fragilità della nostra esistenza, quando invece desidereremmo quella stabilità che è difficile sulla terra, almeno per quanto riguarda la serenità del cuore. I passi di Dio, lenti se vogliamo, ma sicuri, che fanno strada alla nostra vita, a volte ci sembrano difficili e oscuri, ma vanno per il verso giusto, perché sono passi di Dio, sempre che li consideriamo così, ma non saprei come pensarli diversamente. Il Padre, d'altra parte, vuole instaurare con noi un rapporto libero e questa nostra esistenza di creature è il luogo in cui è posta alla prova la nostra libertà e fedeltà, come è ben narrato nella lettura su Abramo, di oggi: "In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: Abramo, Abramo. Rispose: Eccomi. Riprese: Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va' nel territorio di Moira e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò. Abramo si mise in viaggio. Essi arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato: qui Abramo costruì l'altare, collocò la legna. Poi stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l'Angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: Abramo, Abramo!. Rispose: Eccomi. L'Angelo disse: Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio. Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l'ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio. Poi l'Angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: Giuro per me stesso, oracolo del Signore, poiché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e la sabbia che è sul lido del mare: la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Saranno benedette per la tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché hai obbedito alla mia voce" (Gen 22, 1-18). Si resta stupiti di fronte a questo racconto: Dio che mette alla prova la fedeltà di Abramo, chiedendo il sacrificio di 'suo figlio, il suo unico figlio'. Abramo si trova così a dover fare la scelta tra Dio, in cui certamente aveva posto la sua fiducia, e la vita di suo figlio, donatogli da Dio in tarda età e l'unico in cui, da padre, certamente aveva riposto tutto il suo affetto. A chi affidarsi? Leggiamo nel brano che Abramo, interpellato da Dio per ben due volte, rispose con una sola parola: ‘Eccomi’, che equivale alla totale obbedienza. Pur non comprendendo razionalmente la richiesta, con il cuore lacerato, ma sostenuto dal coraggio della fede, dà la preferenza a Dio. Quante volte nella vita siamo messi nella stessa situazione attraverso il dolore - conseguenza del nostro essere creature - 'permesso' dal Padre, che attende la nostra fiducia totale, il nostro: ‘Eccomi!’. Conosciamo tutti la difficoltà nel dare questa risposta. Più facile obiettare: chiedersi le ragioni, a cui non sappiamo mai dare una risposta. E alcune volte ci scagliamo contro Dio, insensatamente, dimenticando che il dolore è conseguenza del nostro peccato, mai è stato voluto dal Padre, anzi, ha mandato il Suo stesso Figlio per liberarci, anche dalla morte! Ma noi non capiamo e resistiamo. Non mi riferisco a quelle sofferenze 'superficialì, che a volte ci procuriamo noi stessi con la nostra leggerezza. Penso alle autentiche 'prove della vità, cui siamo chiamati a dare una risposta. I Santi sapevano sempre dire un pronto e a volte entusiastico 'Sì', leggendo la loro storia alla luce di un Dio Amore, che non si permetterebbe mai di farci soffrire, semmai 'permette' che accada, solo se è per il nostro bene, mai lasciandoci soli, se noi lo vogliamo. Ripenso alla storia del mio caro Fondatore, Antonio Rosmini, uomo e religioso di autentica grandezza. Godeva della stima e dell'amicizia dei Pontefici del suo tempo, tempi politicamente difficili. Sembrava incrollabile la stima che si aveva verso di lui. Ma venne il giorno della prova, quando, non solo fu abbandonato da tutti, ma vide le sue grandi opere - come le 'Cinque piaghe della Chiesa' – ‘oscurate’ da alcuni brani messi addirittura all'Indice. Gli fu imposto il silenzio. E lui si ritirò a Stresa, nell'istituto da lui fondato, continuando a scrivere, fedele al silenzio. Era come sentirsi 'sepolto' dalla storia. Non così la sua fede, che rimase intatta, tanto che al grande Manzoni, amico fedelissimo, che gli chiedeva, in punto di morte, come avrebbe potuto stare senza di lui, dettò la legge della sua serenità: ‘ADORARE, TACERE, GODERE’. Ci vollero tanti anni perché si svelasse il piano dì Dio. Oggi è beato: da sepolto a risorto, anche davanti agli uomini. O ripenso a quando parroco di Santa Ninfa', nel Belice, dopo 10 anni di dura fatica pastorale, nel 1967, insieme al mio vescovo, celebravamo la gioia di una comunità risorta, meravigliosa: un vero miracolo, dopo anni di fatiche e sofferenza. Non passarono neanche due mesi da quel giorno e il 16 gennaio '68, il tremendo terremoto mandò in briciole tutto: la stupenda chiesa che avevamo appena ristrutturata e, in qualche modo, mise allo sbando la stessa comunità, che avevamo allevato con la Grazia di Dio. Ricordo come quella terribile notte, uscendo illeso dalla casa canonica, l'unica rimasta in piedi perché fabbricata con sistemi antisismici, corsi in piazza, totalmente distrutta, a vedere cosa era successo alla Chiesa Madre: sbriciolata. Mi chiesi: 'Perché?' e rivolto al cielo dicevo: 'Signore, fammi capire come ci ami'. Mentre parlavo con Dio venne un mio giovane a chiedere aiuto per la famiglia, rimasta sotto le macerie. Mi risvegliai subito e fu il mio 'eccomi, Signore', iniziando la fatica di ricostruire speranza e comunità. Ma penso, e sono certo, che tutti, anche voi che mi leggete, abbiate vissuto, o forse vivete il dramma di Abramo. Lui non fece domande, disse solo: ‘Eccomi’. La sua era una profonda e sicura fede, che difficilmente possediamo, ma dobbiamo sapere che, nella prova, Dio e vicino e attende solo il nostro ‘sì’. Gesù sapeva che anche i Suoi apostoli, che aveva scelto, formato alla Sua sequela e con i quali aveva tessuto un'amicizia e fiducia senza limiti, per essere poi capaci di donarla alla Chiesa, erano fragili. Da qui l'episodio della Trasfigurazione, come a dire: ‘Nella prova, sappiate Chi sono!’. Narra il Vangelo di Marco: "Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li portò su un monte alto, in un luogo appartato, soli. Si trasfigurò davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elìa con Mosè e discorrevano con Gesù. prendendo la parola Pietro disse a Gesù: Maestro, come è bello stare qui; facciamo tre tende, una per Te, una per Mosè e una per Elia! Non sapeva infatti cosa dire, perché erano stati presi dallo spavento. Poi si formò una nube che li avvolse nell'ombra e uscì una voce dalla nube: Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo! E subito, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo con loro. mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare a nessuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell'uomo fosse risuscitato dai morti. Ed essi tennero per sé la cosa, domandandosi però che cosa volesse dire resuscitare dai morti" (Mc 9, 1-9). Sappiamo tutti quello che avvenne dopo la cattura di Gesù - gli evangelisti non hanno fatto ‘censure’! - la fuga degli apostoli, il tradimento di Pietro. Davanti alla prova la debolezza degli Apostoli ebbe il sopravvento. Ma il terzo giorno, la resurrezione di Gesù fu la conferma della trasfigurazione. Commentava il nostro grande Paolo VI: "Alla luce della croce, il dolore (e possiamo intendere ogni miseria, ogni infermità, ogni debolezza, ogni condizione di vita che sia deficiente e bisognosa di rimedio) appare stranamente assimilabile alla passione di Cristo, quasi chiamato ad integrarsi con quella, quasi una condizione di 'favore' rispetto alla redenzione operata dalla Croce del Signore. Il dolore diventa sacro. Una volta la sofferenza appariva pura disgrazia, pura inferiorità, più degna di disprezzo e di ripugnanza che meritevole di compassione, di comprensione, di amore. Chi ha dato al dolore dell'uomo, il suo carattere sovrumano, oggetto di rispetto, di cura e di affetto, è Cristo paziente, nostro fratello di ogni povero, di ogni sofferente. Vi è di più. Cristo non mostra soltanto la dignità del dolore. Cristo lancia una vocazione al dolore. Bisogna ripensare al prodigio della Trasfigurazione; bisogna accogliere il monito che riempie il cielo di Cristo e ci invita ad ascoltarLo. Fu un'ora unica e prodigiosa quella che i discepoli fedeli trascorsero quella notte sul Tabor, ma sarà un'ora continuata e consueta per noi se sapremo tenere fisso lo sguardo sul viso dei Cristo e della Chiesa per scorgere la faccia nascosta, la faccia vera, la faccia interiore del Signore e del Suo Corpo mistico e la nostra meraviglia, la nostra letizia non avranno più misura né smentita. Scoprire il volto trasfigurato di Cristo per sentire che Egli è ancora e proprio per noi la nostra luce. Quella che rischiara ogni scena umana, ogni dolore e le dà colore e risalto, merito e destino, speranza e felicità" (21. 02. 1964). Vorrei oggi farmi vicino a quanti dei miei amici sono nella prova o nella sofferenza, che sono il drammatico e pericoloso buio dell'anima, ma sono anche la prova dell'Eccomi!, che diciamo al Padre, che ci ama. Ci dia tanta fede, come quella di Abramo, che non fece discussioni, ma rispose, nascondendo il suo atroce dolore, in un meraviglioso 'Eccomi'. Ci dia la forza di dire con il beato Rosmini: 'Adorare, tacere, godere', pur con le lacrime nel cuore. Fuori di questa ‘trasfigurazione’ del dolore, c'è solo la disperazione che fa sprofondare ogni amore alla vita e a Dio. Con madre Teresa di Calcutta preghiamo: O Gesù, Tu che conosci la sofferenza, concedimi che oggi e in ogni giorno io possa vederti sotto le spoglie dei Tuoi malati o sofferenti e offrendo loro la mia attenzione possa servirTi. Caro malato o comunque tu che sei nella sofferenza, mi sei ancora più caro perché rappresenti il Cristo. Dammi, Signore, questa visione di fede e che l'amore non manchi mai. |