Omelia (22-03-2009)
padre Gian Franco Scarpitta
L'innalzamento in vista della Pasqua

Il centro della nostra fede è la Resurrezione, obiettivo ultimo del nostro itinerario quaresimale e aspirazione definitiva della vita del cristiano. Ma perché il valore della resurrezione possa essere adeguatamente compenetrato e noi possiamo in esso immedesimarci è giusto e conveniente che non eludiamo il passaggio fondamentale e irrinuinciabile del patibolo di Cristo: è impensabile poter raggiungere la meta gloriosa della Pasqua senza volerci intrattenere e senza assimilare l'importanza della crocifissione di Cristo, poiché fra la morte e la vita il passaggio è irrinunciabile, come pure ineluttabile è la tappa del dolore prima della gioia, della lotta prima della conquista. Cosicché il Cristo crocifisso è il preambolo della Pasqua e come afferma qualcuno ne è anche l’anticipo poiché è proprio nell'evento della morte che avviene quanto l'umanità avesse mai potuto desiderare, ossia l'essere liberata da quelle che incontestabilmente sono sempre state le sue miserie: nella morte di Cristo si realizza l’alleanza definitiva fra l’uomo e Dio, si dischiudono le porte della comunicazione immediata con l’Assoluto e soprattutto il Crocifisso ci ottiene nel suo sangue il riscatto dal peccato dischiudendoci le porte della salvezza e della vita eterna. La morte di Cristo sulla croce è l’espressione massima dell’amore di Dio per l’uomo, che si esprime nel servizio radicale e deciso, nella gratuità del dono che Cristo fa’ di se stesso; l’unica giustificazione che possiamo dare all’evento consumatosi sul Golgota risiede nella gratuità del dono di Dio, nella donazione che il Padre in Cristo ha voluto fare di se stesso all’umanità, e sempre in ragione dell’amore, anche nella volontà di recuperare l’uomo dalla schiavitù del peccato pagando il prezzo del suo riscatto nel Sangue dell’Agnello Senza macchia che è Cristo.
L’amore di Dio per l’uomo si evince nella forma totalizzante appunto nella crocifissione di Cristo, luogo in cui la volontà salvifica e riconciliante di Dio si mostra incompatibile con i nostri demeriti e rivela l'insufficienza delle nostre opere buone poiché la capacità di amare Dio da parte dell'uomo non regge il confronto con la capacità divina di amare l'uomo fino a crocifiggersi. Morendo per noi sulla croce, Cristo chiede scusa per primo pur non essendo stato il primo ad offendere.Come afferma Giovanni: "Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati" (1 Gv 4, 10); aggiunge Paolo: "Dio manifesta il Suo amore verso di noi in questo che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi" (Romani 5, 8).
Tuttavia Paolo afferma anche che: "... ma (Cristo) spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre." (Fil 2, 7 – 11); se la croce quindi è stata per Cristo strumento di umiliazione e di frustrazione nella sottomissione alla volontà suprema del Padre, essa ha avuto anche valore di esaltazione e innalzamento, poiché proprio l’evento della morte è stato per lui circostanza privilegiata per ottenere la glorificazione e l’elevazione al di sopra di tutte le cose. Il patibolo ha quindi il suo aspetto glorioso, perché in esso il Padre ha innalzato Cristo come Signore di tutte le cose.
Nel brando del Vangelo di oggi tale innalzamento si evince dal termine di paragone che Gesù fa con il famoso episodio di Nm 21, 4 – 9, dove si racconta che il popolo di Israele, pellegrino del deserto, viene sorpreso dalla punizione divina di un’invasione di serpenti velenosi i cui morsi sono subito letali per gli Israeliti: parecchia gente del popolo muore appena lambita dalla lingua dei serpenti; Dio concede comunque il perdono e la salvezza attraverso un serpente di rame che Mosè dovrà innalzare in cima a un’asta, alla vista di tutti: chiunque lo guarderà avrà salva la vita poiché sarà reso immune dalle morsicature di quegli animali.
Ma come il serpente di rame innalzato alla vista di tutto il popolo è stato causa di salvezza per gli Israeliti, così anche il Cristo apporterà parimenti la salvezza a tutto il nuovo Israele (la Chiesa) e sarà motivo di sollievo per tutta l’umanità che otterrà la vita senza fine; questo però purché si guardi a Lui come a "Colui che hanno trafitto" (Zc 12, 10; Gv 19, 37) ossia come Colui che è stato sottoposto al macabro supplizio della morte cruenta per risollevare le sorti dell’umanità.

Certo la crocifissione è la pena più crudele e truculenta che possa capitare a un condannato a morte e anche ai nostri giorni qualsiasi strumento di supplizio non è paragonabile alla croce quanto alla tortura, alla sofferenza e allo strazio ed è per questo che lo stesso Cristo ha spasimato provando angoscia nella prospettiva di esservi inchiodato: la croce è crudele e tremenda e ancora più insostenibile essa si rende nella solitudine, nell’abbandono e nell’umiliazione di essere percossi, derisi e di sperimentare perfino l’abbandono di Dio per ritrovarsi in preda al principe delle tenebre e alla maledizione della stessa Legge ("Maledetto chi pende dal legno") tuttavia in essa Cristo oltre che una tappa decisiva e necessaria per il nostro riscatto vi ha trovato un motivo di innalzamento e di esaltazione che lo qualificherà per sempre come il Signore della storia che ci accompagna nei sentieri della vita mostrandoci anche la certezza delle garanzie future.
Per questo occorre che noi contempliamo "Colui che hanno trafitto" e che ci immedesimiamo noi stessi nel mistero della morte redentrice per associare anche noi stessi al dolore del Signore, completando nella nostra carne quello che manca ai patimenti di Cristo e pertanto non disdegnando di assumere anche noi stessi la crocifissione negli eventi della nostra vita e nelle ansie del quotidiano senza mai omettere di considerare che la croce ha il suo culmine sempre nella meta della resurrezione che è l’oggetto del nostro ambito e allo stesso tempo anche un traguardo proporzionato direttamente alle nostre speranze e alle nostre attese. Abbracciare la croce come un'opportunità di realizzazione quale occasione per vivere le virtù e fortificare lo spirito nell'appartenza a Cristo confrontando sempre il nostro patire con quello del Signore è la reazione più congeniale che da parte nostra si possa operare di fronte al dono che Dio ci fa nel suo Figlio.
Ma c’è anche un altro atteggiamento che Gesù ci chiede di assumere di fronte alla totale gratuità del dono di Dio in Cristo, e si evince dalla frase "Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio." Se Dio insomma ha mandato il proprio Figlio per salvare il mondo nella sua immolazione, la corrispondenza dell’uomo a tale avvenimento sconvolgente di amore divino salvifico non può essere che quello del credere... Credere! Difficile prospettiva specialmente ai nostri giorni, quando si è attratti solamente dalla sperimentazione e dalla razionalità per cui non si ammette trascendenza alcuna; prerogativa molto fastidiosa, poiché impone la rinuncia alle certezze personali e l’accettazione di contenuti che la pura ragione non può non definire "assurdi" e "impensabili"; prospettiva molto complessa, dato il serpeggiare di un soggettivismo dilagante in fatto di fede che trasforma secondo le varie stratificazioni e le preferenze soggettive lo stesso concetto di fede. Il "credere" è una prospettiva molto ardua e difficile, un salto nel vuoto, come diceva qualcuno, oppure una scommessa che nessuno vuole fare con se stesso. Chissà se anche da parte dei "credenti" dichiarati si è maturata sufficientemente la concezione del credere spontaneo, libero e disinvolto?
E invece di fronte al mistero di Dio che ci viene incontro liberamente e nella piena forma di gratuità, dovremmo considerare le limitatezze dello spirito umano e soprattutto che "il punto più alto della ragione è riconoscere che c’è qualcosa che la trascende" (Pascal) e pertanto dischiuderci e accogliere il dono di Dio semplicemente come dono, aderendovi incondizionatamente null’altro che nell’apertura del cuore e nella sottomissione dell’intelletto e della volontà. Il credere è una scelta di libertà che vuole solo un atto di fiducia e di abbandono, un affidarsi totale e disinvolto alla ricchezza del mistero di Dio che in Cristo Crocifisso viene a salvarci e a recuperare ciò che in noi era perduto.