Omelia (08-03-2009) |
mons. Vincenzo Paglia |
Questi è il mio figlio: l'amato È la seconda domenica di questo cammino della Quaresima, iniziato con l’invito personale e insieme rivolto all’intera assemblea: "Ritornate a me con tutto il cuore". Il cristiano deve prendere sul serio la Quaresima. È il Signore che chiama ad una rottura profonda con i nostri pensieri e con il nostro stile di vita. Il ritorno inizia con il rientrare in se stessi, vera umiltà per gente deformata dall’euforia dell’abbondanza e dall’orgoglio dell’io. È tempo per presentarsi alla casa del padre come servi, finalmente come lavoratori e con un cuore in pace e non come figli presuntuosi ed irrequieti, stolidamente sicuri di un amore che si pensa acquisito, che si riduce a proprietà, che si conserva. Tornare per essere perdonati, vecchi e segnati dal peccato come siamo, cercando la gioia di essere abbracciati dal padre i cui pensieri non sono i nostri pensieri. Tornare perché solo un cuore libero dal male si dissocia dalla guerra, trasmette pace e la sa chiedere per un mondo che troppo si è abituato alla violenza, che si illude di potere convivere con l’odio, che non sa cercare la giustizia e la pace. Tornare per essere rivestiti della dignità persa dietro al consumismo pratico, che non si contrappone apertamente, ed a cui lasciamo un così grande spazio. È facile pensare come il fratello maggiore, da dignitari, sicuri; sentendosi a posto; affermando, anche a costo di umiliare il padre, il proprio sentire e la propria giustizia; credendo di non avere mai smesso di fare quanto era chiesto. Anche il fratello maggiore deve tornare, potrebbe tornare, proprio iniziando ad abbandonarsi alla gioia ed al perdono, accogliendo il fratello, liberandosi dai giudizi e dalla sua memoria triste. In realtà è lontano dai sentimenti del padre: vive nella sua casa, ma in maniera individualista, attento al mio ed al tuo. Non torna quando crede più alla sua giustizia che all’amore. La sua infedeltà si rivela proprio di fronte alla misericordia. Egli parla contrapponendosi; sa usare solo l’io, "quello che io ho fatto", che "io ho provato", "che io penso"; mentre il padre non smette, accorato, di difendere il noi di una familiarità che è salvezza per quella casa ed anche per quei due figli che continua ad amare. Il fratello maggiore non è felice, perché non c’è felicità senza amore. Non si può essere felici da soli; non si può essere felici senza gli altri; non si può essere felici contro gli altri. "Ritornate a me con tutto il cuore" Sul monte sale Gesù. In realtà è lui stesso il sacrificio: lui sceglie di non salvare se stesso, di non risparmiarsi. È un uomo segnato dalla sofferenza, cosciente che avrebbe dovuto salire un altro monte, quello del Golgota. Non c’è gioia evitando il male, fuggendo dalla sofferenza. La quaresima è salire sul monte, è questa ascesi. Non si arriva subito: occorre pazienza, fiducia, cuore, per uomini poco interiori, incostanti e volubili come siamo noi, così condizionati dal presente. È ascesi per limitare la schiavitù dell’amore per sé, per allargare il cuore che si restringe quando non lo curiamo o restiamo fermi; ascesi per trovare la felicità. Occorre salire per potere contemplare le cose del cielo e quindi il senso ed il futuro delle nostre povere persone. Sul monte la presenza ordinaria del Signore, che spesso abbiamo trattato con sufficienza, ridotto ad una compagnia abituale, rivela pienamente la luce che contiene. Senza salire sul monte dell’ascolto, della preghiera la sera, della santa liturgia nel giorno del Signore; senza salire andando al fondo di sé seguendo lui, la vita si riduce a quello che vedo, che mi serve, che tocco, che possiedo, che mi conviene. Si riduce a me. Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni. Insegna loro ad esser concordi, perché siano liberi dal sonno dell’individualismo e della tristezza. Gesù vorrà di nuovo accanto a sé proprio questi tre discepoli per potere salire con loro l’altro monte, quando sarà spogliato di ogni felicità. E dormiranno. Se non si mette a centro Lui si finisce per discutere su chi è il più grande o, semplicemente, per addormentarsi. Pietro non sa bene che dire. Si lascia andare ed esclama: "È bello per noi restare qui! Facciamo tre tende!". Pensa che la felicità sia una situazione da prolungare il più possibile, come un benessere da conservare. No. La felicità si vive e diviene interiore. Le tende bisogna costruirle nel mondo, nei cuori induriti degli uomini, nella vita ordinaria. Bisogna costruire tende dove risuoni la parola di beatitudine del Figlio prediletto, che tutti possiamo ascoltare e vivere. È bello per noi godere di questa luce. È bello che i fratelli stiano assieme. È bello perché nessuno può impadronirsene, perché la felicità è contagiosa, perché cresce comunicandosi. Questa santa liturgia è sua; è bella perché riflette, nella nostra povera debolezza, la forza luminosa dell’amore di Dio, forza che sarà piena in cielo. La stessa luce, luce del cielo, la contempliamo nella gioia dei poveri amati; degli anziani consolati; dei malati che riprendono a sperare, di chi è reso luminoso dalla compagnia di un estraneo diventato prossimo. È la stessa luce di quel monte, anticipo della luce del mattino di Pasqua. I tre discepoli vengono raggiunti da una voce: "Questi è il mio figlio prediletto. Ascoltatelo!". Sì, la luce dell’amore non è una magia ma un uomo, quello di sempre, che continua a camminare con noi. Resta lui solo, non videro più nessuno. È lo stesso Signore che rimane nella vita ordinaria, continuando a comunicare quell’energia di pienezza, di luce, di pace che trasfigura la vita del mondo. Luce che ci viene affidata per la gioia di coloro che sono nelle tenebre e nell’ombra di morte, per liberare il mondo dal buio, per illuminare la notte del dolore. |