Omelia (05-04-2009)
padre Gian Franco Scarpitta
La gloria sì, ma dopo il dolore. Perchè per lui la gloria è il dolore.

Essere osannato con l’ostentazione e il lancio di palme dalle ovazioni della folla, anche nella Bibbia, è sinonimo di esaltazione e glorificazione nei confronti di chi riveste un ruolo importante o riveste una posizione dignitosa, come nel caso di un re o di un signore.
E tale difatti viene riconosciuto Gesù, mentre fa ingresso a Gerusalemme: la folla, che ha fatto ressa sulla strada sin da quando ha sentito del suo arrivo imminente, ora che lo vede entrare nella città stende i tappeti man mano che egli avanza, e, raccolti dagli appositi alberi, agita nelle mani rametti di palma che vengono anche lanciati al suo passare.
Un segno di somma riverenza e di esaltazione nei confronti di Chi ha manifestato la sua gloria di Figlio di Dio e Signore attraverso insegnamenti e miracoli, dimostrando l’amore del Padre verso tutti e i segni della venuta del Regno di Dio: Cristo è esaltato e ammirato dalla gente che si accalca attorno a lui.
E comunque egli sa bene che il suo ingresso a Gerusalemme non è affatto trionfale.
Innanzitutto, infatti, Gesù percorre le strade gerosolimitane nella condizione di gloria, ma allo stesso tempo nella modalità umile e dimessa che aveva preventivato il profeta Zaccaria: "Esulta grandemente figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d'asina. " (Zc 9, 9). Gesù piuttosto che la sua dignità regale considera la nullità e l’umiliazione che lo stanno interessando, per le quali sceglie un’insolita cavalcatura; prende cioè in considerazione l’aspetto deprimente di quella sua esperienza.
E infatti il destino che Gesù deve affrontare non è soltanto quello dell’esaltazione, ma anche e soprattutto quello dell’immolazione.
Gerusalemme – lui lo sa benissimo – è la città in cui sta per giungere la sua "ora", quella nella quale avrà il sopravvento il favore delle tenebre, l’incontrastata valenza del diavolo che lo attanaglierà attraverso sorprese, inganni, tradimenti... Per condurlo alla morte.
E così momenti di gioia e di esaltazione si trasformano presto in frustrazioni, angoscia, pianto, paura e solitudine per poi assumere l’aspetto infame del flagello, della corona di spine, degli scherni e degli spintoni sotto il peso della croce (del palo trasversale) sorretta sulle spalle fino al Golgota, e finalmente dei chiodi lancinanti della croce. Eppure proprio in questo il nostro Dio manifesta la sua potenza, nell’abbandonare se stesso nel suo Figlio e nel ridursi al rango di servo e di schiavo, proprio come afferma Paolo nella II Lettura di oggi: "Non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso assumendo la condizione di servo, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce." Insomma, una maestà e una regalità che eludono l’ossequio delle palme e il clamore della folla e che affronteranno la ferocia di ben altra folla che griderà a Pilato: "Crocifiggilo, crocifiggilo" e che accetteranno senza reagire le torture di un flagello: Gesù è Re non perché detta ordini ma perché si rende servo di tutti al punto di annichilire se stesso, rinunciare a tutte le garanzie e ai privilegi che gli proverrebbero in forza della propria autorità. Come dicevamo poc’anzi, è proprio questa la potenza di Dio: manifestare se stesso in ciò che comunemente l’uomo ritiene assurdo, pazzo e inconcepibile, come il morire di Dio sulla croce fra gli insulti e le bestemmie e questa deve essere la sapienza oggetto della nostra fede e della nostra predicazione, come afferma ancora l’apostolo Paolo: "Poiché la predicazione della croce è pazzia per quelli che periscono, ma per noi, che veniamo salvati, è la potenza di Dio; infatti sta scritto:
«Io farò perire la sapienza dei saggi e annienterò l'intelligenza degli intelligenti»." (1 Cor 1, 18 – 19).
Siamo invitati allora a considerare si il trionfo di Cristo, indubbiamente la sua regalità e la sua onnipotenza come pure il suo futuro di gloria e di fortezza, ma non senza la presa di coscienza delle vie che egli stesso ha preferito per il perseguimento dei suoi obiettivi, quelli relativi alla sofferenza, al dolore e alla morte e proprio questo è il tempo propizio anche per noi per riscoprire che ogni finalità di gloria si acquisisce non senza lo strazio della croce e che ogni opera nobile non è mai esente da rischi o da sofferenze. Un’esortazione insomma a guardare alla gloria conseguita con la croce.