Omelia (29-03-2009) |
mons. Roberto Brunelli |
Attirerò tutti a me Per comprenderlo meglio, occorre ricordare che l’episodio del vangelo odierno si colloca dopo il trionfale ingresso di Gesù a Gerusalemme (quello che la liturgia celebra la prossima domenica) e appena prima della sua passione. Qualcuno chiede di incontrare personalmente quell’uomo che la folla ha appena acclamato: sono alcuni Greci, avanguardia degli innumerevoli non-ebrei che in seguito sarebbero divenuti suoi discepoli, e lo chiedono non a caso a Filippo, il quale probabilmente aveva rapporti con loro (questo apostolo porta un nome greco e, precisa l’evangelista, era di Betsaida di Galilea, regione abitata da numerosi non-ebrei). Filippo si consulta con Andrea (altro apostolo dal nome greco) e i due insieme presentano la richiesta al destinatario. L’evangelista non riferisce l’andamento dell’incontro con quegli stranieri; ma si può intuire che Gesù li abbia quanto meno sorpresi: egli, appena osannato dalla folla, parla, sì, della propria glorificazione, che avverrà però per la dolorosa via della croce. "E’ giunta l’ora", esordisce Gesù: affermazione solenne, alla luce delle tante che l’hanno preannunciata (a cominciare dall’inizio della sua vita pubblica: alle nozze di Cana, alla madre che gli chiedeva di intervenire nella situazione imbarazzante degli sposi rimasti senza vino, prima del miracolo egli precisò che non era ancora giunta la sua "ora"). Adesso l’ora è giunta, col suo mistero e la sua grandezza e le sue conseguenze; l’ora in cui egli sarà "innalzato da terra", dopo aver subìto tormenti indicibili. Nella sua umanità egli li percepisce tutti; a quella prospettiva non nasconde la sua umana sofferenza, ma insieme ribadisce la volontà di compiere la sua missione fino in fondo: "Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora!" Va davvero oltre ogni normale prospettiva, che egli sia consapevole di quanto l’aspetta, possa sottrarvisi, e non lo faccia. Qui davvero si tocca con mano la sublimità di un amore, che si esprime con mezzi umani ma è tanto grande da travalicare i limiti dell’umano, specie se si pensa chi sono, che meriti abbiano, coloro per i quali egli accetta di patire. L’umanità in genere, e i suoi singoli componenti in particolare, non avevano e non hanno alcun titolo per aspettarsi che Dio si degni di volgere verso di loro lo sguardo, dunque ancor meno che addirittura per loro dia la vita. E non per qualcuno soltanto, per i migliori: "Io" dice, "quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me". Tutti! Generosi e malvagi, ricchi e poveri, bianchi neri e gialli, uomini e donne, umili e potenti: per tutti egli è stato "innalzato da terra", e a tutti offre la possibilità di raggiungerlo, e così realizzare la propria vita. Il modo, l’ha spiegato poco prima con un esempio, seguito da una dichiarazione esplicita: "Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna". Come il chicco di grano che volesse ostinatamente restare integro non servirebbe a nulla, così chi ama la propria vita, nel senso egoistico di chi pensa solo a se stesso senza curarsi degli altri, condanna la propria vita alla sterilità, all’inutilità; può credersi furbo, mentre in realtà è un perdente. Solo il chicco disposto a disfarsi produce frutto; così chi "odia" la propria vita (l’espressione è un esempio dei paradossi propri del linguaggio orientale), cioè in certo modo se ne priva perché ne fa dono agli altri, arricchisce il mondo di nuovi frutti, che gli valgono la vita eterna. |