Omelia (19-04-2009) |
Il pane della domenica |
Dalla paura alla gioia, dal dubbio alla fede Otto giorni dopo, viene Gesù Lo aveva promesso Lui stesso qualche sera prima, in quella stessa sala, durante la cena di addio ai suoi discepoli: "Tra poco non mi vedrete più, ma dopo un po’ mi rivedrete ancora. Vi rivedrò e il vostro cuore gioirà, e nessuno vi potrà più togliere la vostra gioia" (Gv 16,16.22). Ma poi la morte aveva celebrato il suo trionfo più eclatante, il più crudele e più terribile della serie ininterrotta e interminabile dei miliardi e miliardi di morti di tutta l’umanità: Gesù di Nazaret, colui che era passato facendo del bene e risanando tutti quelli che stavano sotto il potere del diavolo (At 10,38), lui l’unico veramente innocente tra tutti i figli di Adamo, era stato processato, condannato, barbaramente trucidato e seppellito: fine. E con la sua morte, era morta e seppellita la speranza: ormai ci si sentiva nuovamente e fatalmente condannati a scivolare sul piano inclinato dell’amarezza, poi dell’indolenza, quindi dell’indifferenza, per sprofondare infine nelle sabbie mobili della disperazione. Da quell’ora nona del 14 di nisan si era fatto buio su tutta la terra, e la paura - una paura lucida, fredda e raggelante - si era insediata, sovrana e inamovibile, nel cuore dei discepoli. 1. Ma fin dalle prime luci dell’alba di quel primo giorno della settimana si erano rincorse delle voci strane, al primo sentore tra il patetico e il ridicolo: il sepolcro sarebbe stato trovato vuoto, le donne del gruppo millantavano credito con quella storia di visioni di angeli, e Lui - del quale ancora ci si domandava come avesse fatto ad arrivare vivo al supplizio della croce, dopo la sfibrante tortura della flagellazione - una volta crocifisso, morto, imbalsamato e seppellito, dopo tre giorni sarebbe tornato di nuovo in vita. Ma poi proprio Lui in persona, si era fatto vedere, la sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato... Qui facciamo una prima sosta, per entrare anche noi nel cenacolo, e osservare la scena dal vivo. I discepoli non si aspettano nessuno - tanto meno un morto che parli! - non sperano più in nulla, anzi hanno paura di dover fare la stessa fine del Maestro, e hanno sprangato a doppia mandata le porte del cenacolo. Ma si possono chiudere le porte del cuore alla paura, se il cuore è ricattabile, se la vita importa più di Gesù? E, però, chi è uscito vivo dal sepolcro dove era stato rinchiuso e sigillato per tre giorni, non può forse entrare vivo in una stanza chiusa e sbarrata dalla paura? Di fatto il Signore viene e mostra le piaghe della passione, i segni tangibili dell’amore, di un amore folle sino alla fine, di una dedizione gratuita, senza alcuna condizione e alcun confine. E i discepoli passano dalla paura della morte alla morte della paura. E conoscono la gioia. Dunque non è la rianimazione dei discepoli a risuscitare Gesù, ma è la risurrezione di Cristo a rianimare i discepoli. Perché il Risorto non solo è vivo, ma è datore di vita: alita su di loro per donare il suo stesso Spirito, come Dio all’inizio soffiò il suo alito di vita sul primo uomo e ne fece un essere vivente. Ma qui c’è qualcosa di più: se la creazione era stata un passaggio dal non-essere all’essere, la risurrezione è qualcosa di ancora più stupefacente: è il salto "vitale" dalla morte alla vita: una vera ri-generazione. È il Risorto che risuscita la sua comunità e la fa passare da una fede morta a una speranza viva. I segni di questo "risorgimento" dei discepoli sono due: il primo è la missione, come partecipazione alla stessa missione del Figlio: "Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi". Una frase parallela a quella dell’ultima cena con i suoi: "Come il Padre ha amato me, anch’io ho amato voi" (Gv 15,9). Dunque inviare fa rima con amare e missione con comunione. La missione nasce dalla comunione trinitaria tra il Padre e il Figlio nello Spirito Santo, e tende alla comunione tra i discepoli, perché "anch’essi - aveva pregato Gesù in quella stessa sala, la sera dell’addio - siano in noi una cosa sola" affinché il mondo creda (Gv 17,21). L’altro dono del Risorto è il perdono: "A chi rimetterete i peccati...": anche questa è una ri-creazione: si tratta di far passare i discepoli da peccatori a perdonati, e gli apostoli da riconciliati a riconciliatori. È il potere di perdonare, ma anche di imputare il peccato a chi consapevolmente e deliberatamente si rifiuta di accogliere il Risorto e di convertirsi al suo perdono. È un potere indispensabile a chi deve evangelizzare, e i verbi che lo esprimono dicono la continuità di questo potere, mentre la costruzione passiva (i peccati "saranno rimessi" oppure "resteranno non rimessi") indica che quanto sancisce l’apostolo, l’inviato, sotto l’azione dello Spirito Santo, sarà ratificato da Dio stesso. 2. Otto giorni dopo... facciamo un’altra sosta, stavolta con Tommaso. Guardiamolo come i pittori cristiani - pensiamo a Caravaggio - lo hanno rappresentato, proprio mentre "tocca le ferite", e il suo volto si fa assieme ostinatamente esigente nel controllo e istantaneamente folgorato dal contatto. L’evangelista invece lo descrive travolto dall’evidenza del Risorto che gli si offre disarmato, gli parla con dolcezza, gli consente con delicata condiscendenza quello che alla Maddalena aveva impedito - "Non mi toccare!". E se lo stringe a sé, al punto che il discepolo gli crolla davanti in ginocchio, ed esplode in quella professione di fede, la più alta e più netta delle sacre Scritture: "Mio Signore e mio Dio!". E un grido di felicità sale dal cuore e dalle labbra del Crocifisso-Risorto: "Beati quelli che pur non avendo visto crederanno!". Il cristiano che vive oggi con Gesù a Roma o a Rio de Janeiro o a Hongkong secondo lo Spirito è più beato di chi visse con Gesù in Palestina secondo la carne. "L’incredulità di Tommaso - scrive s. Gregorio Magno - è stata per noi più utile che la fede dei discepoli che hanno creduto" (PL 76,1201s). Così facendo, il Didimo permette a noi di essere beati - più beati di lui - noi che crediamo non per aver visto il Risorto, ma perché gli Undici con Tommaso lo hanno incontrato e toccato, noi che "lo amiamo, pur senza averlo visto" (1Pt 1,8). Ora tutto questo non solo lo ricordiamo stupiti e commossi, ma lo sperimentiamo effettivamente nella celebrazione eucaristica. Tra poco il canto alla comunione ci ripeterà: "Accosta la tua mano, tocca le cicatrici dei chiodi e non essere incredulo, ma credente". Noi accosteremo la mano e riceveremo il suo corpo; toccheremo le sue piaghe gloriose, prodotte dall’amore, e Lui toccherà le nostre piaghe purulente, prodotte dall’egoismo, dall’orgoglio, dal peccato. E saremo guariti. E saremo beati. Ma poi dovremo andare: non potremo rimanere rinchiusi in chiesa; il cenacolo non può diventare il nostro loculo. Non possiamo restare prigionieri di una pastorale rassegnata, lamentosa, ripiegata. Dovremo spalancare le porte dei recinti in cui ci siamo sequestrati per proteggerci e consolarci a vicenda; dovremo andare a dire a tutti: "Abbiamo visto il Signore!". Dovremo esprimere una fede tangibile, che si espone a ogni dubbio, si propone a ogni ricerca, si dischiude a ogni domanda, e sa mostrare a chi trova difficile credere nel Risorto, delle mani aperte al dono e un cuore ferito dall’amore. Commento di Mons. Francesco Lambiasi tratto da "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi" Ave, Roma 2008 |