Omelia (09-04-2009) |
padre Gian Franco Scarpitta |
L'Amore è sempre notturno.... Che Gesù si consegnasse volontariamente al patibolo non è stato effettivamente indispensabile per lui e neppure il Padre era obbligato a che il proprio Verbo subisse nella carne lo strazio dell’agonia e del sangue sulla croce. Perché l’uomo potesse salvarsi infatti sarebbe bastato anche un solo atto straordinario e sconvolgente da parte della divina onnipotenza, un semplice gesto dirompente e convincente per tutti quale potrebbe essere un miracolo o di uno sconvolgimento cosmico; Dio avrebbe potuto convincere l’uomo del suo piano di salvezza mediante procedimenti più comodi e diretti e come diceva lo stesso Gesù, il Padre avrebbe potuto anche provvedere alla difesa del suo Figlio inviando prontamente dodici legioni di angeli (Mt 26, 53). Gesù però si concede liberamente alla legge giudaica che lo vuole morto, accetta su di sé il discredito e la calunnia fino alla morte solitaria nell’abbandono e nella mestizia; il tutto senza reagire né mostrare ritorsioni o recriminazioni di sorta e questo si deve semplicemente alla "pazzia" della croce, all’insensatezza con cui Dio mostra di amare gli uomini fino a perdersi nel suo Figlio. La parte del leone la fa l’amore divino spasimante per l’umanità, che è l’unica motivazione fondamentale per cui si realizza l’evento insolito e grandioso del Golgota; lo stesso amore che da sempre accomuna nella simbiosi e nella coappartenenza il Padre e il Figlio nel vincolo dello Spirito Santo; lo stesso con cui Dio aveva dispiegato le tappe della storia della salvezza e con cui da sempre aveva inteso riscattare l’uomo anziché abbandonarlo al proprio destino. Se Dio insomma ha scelto per noi l’inimmaginabile nella croce di Cristo, ciò si deve nient’altro che all’ imperativo che egli dà a se stesso di amare indissolubilmente l’uomo nella misura in cui egli si allontana recalcitrante. L’amore che compie il tutto nello spirare di Cristo in croce. L’amore che muove Dio a rendersi carne per l’uomo trova compimento in una notte a Betlemme; l’amore che sprona Dio a straziare la propria carne per l’uomo trova compimento in una notte a Gerusalemme. Espressione e preludio di questo grande amore di autoconsegna è quanto si verifica nella sala al piano superiore della casa di Gerusalemme, opportunamente ammannita e adornata per la circostanza: Gesù in tale occasione mostra di essere realmente innamorato dell’umanità attraverso quel gesto estremamente concreto e inverosimile considerando le comuni tendenze umane: si china sul pavimento per lavare i piedi ai discepoli. Il che dissipa ogni dubbio sulle caratteristiche dell’amore di Dio per l’uomo, che è il servizio umile e disinteressato: il lavare i piedi ai discepoli da parte del maestro attesta infatti l’amore totalizzante di questi e la decisione effettiva e indubbia di perdere se stesso nel donarsi agli altri, l’eroismo con cui si suole perdere ogni sicurezza personale e ogni garanzia purché risulti certo ed effettivo il dono gratuito e disinteressato; la concretezza dell’essere pronti e solleciti nelle azioni semplici ma eloquenti. Nel pediluvio ai discepoli Gesù rinuncia a se stesso e si perde per innalzare gli altri, mostrando così che la volontà divina di salvezza si realizza solo nell’amore, che è molto più convincente e risolutivo che non molteplici atti miracolistici sovrannaturali. Il maestro che serve risolutamente e senza reticenze i suoi sudditi e i subalterni non vergognandosi dell’umiltà di certi atti di abbassamento qualifica anche il vero concetto di autorità, che si identifica nel servizio pronto per la promozione del bene comune e per la salvaguardia della tranquillità dei sudditi. Gesù lava i piedi perché mostra che non c’è amore tangibile e concreto se non nel servizio spassionato e disinteressato, ma incita anche tutti noi alla concretezza operativa della sua sequela: "Come ho fatto io, fate anche voi": l’amore che si riceve gratuitamente non può essere mai oggetto di geloso nascondimento né motivo di preclusione e non ammette retorica e chiusura alcuna, ma va condiviso con gli altri nella stessa immediatezza con cui è stato ricevuto. In parole povere, se Cristo ha lavato i piedi ai suoi discepoli, ciò comporta automaticamente che anche i discepoli – cioè tutti noi, appunto, noi oggi – non possiamo eludere il monito a lavarci i piedi gli uni gli altri e se tante possono essere le interpretazioni addotte a tale monito, una sola ne è la sostanza: siamo chiamati ad essere servi gli uni degli altri, ad usarci concreta disponibilità a partire dalle minime esigenze e dalle più piccole necessità e a seguire dai con i problemi più impellenti e grande levatura. Ognuno di noi dovrebbe davvero essere talmente eroe da mettersi a disposizione degli altri in ogni circostanza anche minima e anche a costo di dover sopportare ostilità, denigrazione, invidia, gelosia e perfino nella possibilità di essere considerato un ingenuo o un irrazionale. Insomma, come dice Giovanni " Chi dice di dimorare in Cristo deve comportarsi come lui si è comportato" (1 Gv 2, 6) assumendo tutti nessuno escluso i tratti dell’amore che hanno caratterizzato la sua vita e che adesso non possono non interessare la nostra dimensione vitale. Dire che Cristo è il nostro sprone e il nostro riferimento vitale viene smentito risolutamente quando di Cristo si assumono solamente gli aspetti più convenienti e accomodanti o quando lo si segue in ciò che ci risulta essere più consono e abbordabile; meritorio di ricompensa eterna è invece il seguire Cristo nella concretezza delle opere che lo rendono davvero presente e al contempo rendono noi suoi testimoni. Sempre lo stesso spirito di autoconsegna amante fa sì che Cristo nella sala al primo piano di quella casa in quella sera triste e desolata, preannunci a tutti quanti il sacrificio per il quale sta per essere consegnato e al contempo garantisce la sua presenza effettiva lungo i secoli nella forma sostanziale; il tutto con le parole categoriche che non possono lasciare spazio a dubbi o incertezze: "Questo è il mio Corpo... Questo è il mio sangue... Fate questo in memoria di me." Nei segni tangibili del pane e del vino, che richiamano l’offerta sacrificale di Melchisedk di ritorno dalla guerra dei quattro re, Gesù mostra la sua volontà di essere sempre con noi come "pane vivo disceso dal cielo" e ci ravvisa in tal modo che Dio, resosi uomo per la nostra salvezza, non contento di aver assunto forma umana per entrare nella storia, ha deciso di rendersi nostro alimento vitale, così come egli stesso affermava: " Io sono il pane vivo disceso dal cielo; chi mangia di questo pane vivrà in eterno"; "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue avrà in sé la vita e io lo resusciterò nell'ultimo giorno. Il riferimento è chiaro e indubbio: Gesù Cristo invita a mangiare materialmente di se stesso, a cibarsi della sua carne e del suo sangue, ad assumere insomma il Suo Corpo nelle specie eucaristiche mentre il Sacramento ci ripresenta il sacrificio della croce. E’ Dio che si fa' mangiare, rendendosi cibo per noi, esprime ancora una volta la predilezione disinvolta per l’uomo nella deliberazione di offrirsi come suo alimento irrinunciabile di vita, affinché l’uomo possa appagare la fame innata di verità e di assoluto che da sempre lo contraddistingue come elemento fragile e caduco. |