Omelia (05-04-2009)
mons. Vincenzo Paglia


Oggi inizia la Settimana Santa o della passione. È santa perché al centro c’è lui. È come una nuova creazione: quello che è vecchio può diventare nuovo, risorgere. Seguiremo la storia di un uomo pieno di passione, di cuore: colui che "umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte ed alla morte in croce". Davanti a lui non si può restare neutrali. La passione di Gesù, come la debolezza e il dolore degli uomini, non è uno spettacolo da osservare. Quanto è facile rimanere come spettatori, preoccupati solo di non essere coinvolti direttamente oppure provando pietà ma restando sempre distanti. La sua è passione di amore. Questa rivela le nostre freddezze o la meschinità delle tante passioni che agitano il nostro cuore. Gesù non ci cambia con una legge. Ma con un amore grande così. Perché Gesù è condannato? Perché si preferiscono i sacrifici della legge alla misericordia; per il fastidio e per la paura di un amore senza confini; per la malizia dei furbi; per l’idolatria dei denari; per la diffidenza dei giusti; per le abitudini e le tradizioni dell’amore per noi stessi più forti anche dell’umanità. Lui è l’uomo, da difendere, da proteggere, da amare. Non basta non fare il male, avere le mani pulite, non decidere: bisogna amare quell’uomo. Chi non sceglie l’amore finisce per essere complice del male.
Gesù entra in Gerusalemme come re. La gente sembra intuirlo e si mette a stendere i mantelli lungo la strada com’era uso in Oriente al passaggio del sovrano. Nel secondo libro dei Re si legge che per festeggiare l’elezione di Jehu a re d’Israele "tutti presero i loro mantelli e li misero ai suoi piedi lungo la scalinata" (9,13). Anche i verdi ramoscelli di ulivo, presi dai campi e cosparsi lungo il percorso di Gesù, fan da tappeto. Il grido "Osanna" (in ebraico vuol dire "aiuta") esprime il bisogno di salvezza e di aiuto che la gente sentiva. Finalmente arrivava il Salvatore.
Gesù entra in Gerusalemme, e nelle nostre città di oggi, come colui che solo può farci uscire dalle nostre schiavitù per renderci partecipi di una vita più umana e solidale. Ma il suo volto non è quello di un potente o di u forte, ma di un uomo mite ed umile. Passano sei giorni, da quell’ingresso trionfale, e il suo volto sarà quello di un crocifisso, di un vinto. È il paradosso della domenica delle Palme che ci fa vivere assieme il trionfo e la passione di Gesù. La liturgia, infatti, con la narrazione del Vangelo della Passione dopo la lettura di quello dell’ingresso in Gerusalemme, quasi a sottolineare la brevità dello spazio che separa l’Osanna dal Crucifige, ci mostra subito questo volto che diviene un volto crocifisso. L’ingresso di Gesù nella città santa è certo l’entrata di un re, ma l’unica corona che nelle prossime ore gli viene posta sul capo è quella di spine, lo scettro è una canna e la divisa è un manto scarlatto da burla. Quei rami di ulivo che oggi sono il segno della festa, fra qualche giorno, nell’orto ove si ritirava per la preghiera, lo vedranno sudare sangue per l’angoscia della morte.
Gesù non fugge, prende la sua croce e con essa giunge sul Golgota, ove viene crocifisso. Quella morte che agli occhi dei più sembrò una sconfitta, fu in realtà una vittoria: era la logica conclusione di una vita spesa per il Signore. Davvero solo Dio poteva vivere e morire in quel modo, ossia dimenticando se stesso per donarsi totalmente agli altri. E se ne accorge un militare pagano. L’evangelista Marco scrive: "Il centurione, vistolo spirare in quel modo, disse: Veramente quest’uomo era il Figlio di Dio!" (Mc 15,39).
Chi capisce Gesù? I bambini. Sono loro ad accoglierlo mentre entra a Gerusalemme. "Se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli", disse Gesù. È quello che accade a Pietro. Si mette a piangere come un bambino iniziando a capire se stesso. Noi siamo come lui. Quando Gesù confidò a Pietro che sarebbe stato messo a morte questi si arrabbiò. Vuole vincere, non perdere. Non può accettare di essere debole. La scelta di Gesù di essere un servo scandalizza un uomo adulto, convinto della necessità della forza, sicuro che solo questa possa risolvere i problemi, che non sa credere all’ingenuità dell’amore. Pietro confida nel suo orgoglio. "Io non mi scandalizzerò mai di te", proclama a Gesù. Crede di essere buono. In realtà dorme quando Gesù gli chiede di vegliare un’ora sola con lui: è come abbrutito, insoddisfatto, triste, svogliato. In realtà non sa pregare. Dorme e lascia solo Gesù. Poi, forse, fu lui a prendere in mano la spada, credendo di difendere con la violenza il suo amico. Sonno e violenza. Cerca solo di salvarsi. Lascia solo e resta solo. Tradisce l’amore e ne ha bisogno. Si vergogna di Gesù, un debole, uno sconfitto. Ha paura. Nega l’amicizia. Sono i nostri tradimenti. Ma alla fine guardando le conseguenze del male, Pietro piange. Rientra in se stesso. Ricorda, capisce, scioglie il suo orgoglio, si pente. In questa settimana diventiamo uomini veri, come Pietro. Piangiamo come bambini, chiedendo perdono del nostro peccato. Commuoviamoci di fronte al dramma dei tanti poveri cristi che con la loro croce ci ricordano la sofferenza e la via crucis che fu di Gesù. Scegliamo di non scappare più, di non seguire più da lontano, ma di stargli vicino e di volergli bene. Prendiamo in mano il Vangelo e facciamo compagnia a Gesù. La passione è via del dolore, ma anche della gioia. Percorriamola con Gesù, risorgeremo con lui.